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LA MORTE IN DIRETTA
(LA MORT EN DIRECT)
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  Stampa questa scheda Data della recensione: 20 novembre 1980
 
di Bertrand Tavernier, con Romy Schneider, Harvey Keitel, Max von Sydow (Francia, 1980)
 

LA MORTE IN DIRETTA, uno dei film più lodati del "nuovo" (ma fino a quando bisognerà attendere affinché diventi vecchio, nel senso di maturo?) cinema francese, mi sembra esemplare per comprendere tutti i pregi, ed i limiti, nei quali si dibatte il cinema che deve raccogliere l'eredità impegnativa dei Bresson, dei Godard o dei Resnais. Il film è composto, infatti, da numerosi elementi che, presi a sé stanti, sono più che promettenti. Diciamo che la somma degli addendi di LA MORTE IN DIRETTA sembra fatta apposta per approdare ad un capolavoro. Il soggetto, innanzitutto. Difficile, impegnativo, anche astruso, ma comunque interessante: filmare, come dice il titolo, il procedere di una morte in diretta. Da un romanzo di fantascienza di valore (autore David Compton) nasce questa storia di una rete televisiva guidata da un produttore privo di scrupoli che scopre una giovane donna condannata a morire, di morte naturale, entro un brevissimo lasso di tempo. Come poterla seguire fino nei suoi ultimi istanti e rnostrarla in un morboso ma spettacolare reportage a milioni di spettatori? Grazie ad uno stratagemma fantascientifico (ma nemmeno tanto, visto che negli Stati Uniti si è parlato di ridare la vista ai ciechi con qualcosa di simile): applicare una specie di protesi, una mini-camera televisiva, negli occhi di un operatore televisivo, ovviamente abbastanza disperato per accettare un intervento chirurgico del genere, e privo di scrupoli per prestarsi poi alla indagine crudele.

Tavernier, ex critico e saggista di valore, ammiratore di cinema americano, rimane comprensibilmente sedotto da una storia come questa: gli permette di dissertare abbondantemente sulla strumentalizzazione della morte, da parte di due componenti fondamentali della nostra epoca, il capitale, o il profitto se preferite, e la degenerazione dei mezzi di comunicazione. Si premura allora di assicurarsi una seconda carta vincente, quella della sceneggiatura, assicurandosi la collaborazione di David Rayfiel, collaboratore di Sidney Pollack (JEREMIAH JOHNSON, THE WAY WE WERE), di Bergman per L' OCCHIO DEL SERPENTE, di Losey per il suo prossimo film. Anche qui, i propositi sembrano chiari: questa storia di una morte filmata attraverso lo sguardo di un cineoperatore è ideale per sviluppare un discorso estetico-morale sul significato di uno sguardo cinematografico, un film sul film. E gli americani come Pollack sono maestri in questo genere di distanziazioni, E nell'uso degli sfondi, degli ambienti. Anche qui, carta vincente. Tavernier sceglie Glasgow ("per ambientarci una fantascienza vittoriana, dickensiana"). Una città dai sobborghi abbandonati, dove la natura ancora salva della campagna scozzese s'incontra con violenza drammatica con l'universo tipico della industrializzazione più degenerata. E la fotografia, magnifica, l'uso dello sfondo per dipingerci un mondo futuro ma assai prossimo in via di estinzione, l'inquietudine degli uomini abbandonati a se stessi in quella dimensione priva di confronti umani, costituisce sicuramente la parte più riuscita del film, la sola che riesce a trasmettere allo spettatore una vera emozione, in un film che vuol essere tutto un crescendo emotivo.

Rimangono gli attori, scelti per una carica emotiva che li caratterizza da tempo (anche se ci sarebbe da discutere fra un'emozione letteraria alla Sautet tipica della Schneider; e quella più sfrontatamente visualizzata, alla Scorsese o ancor più alla Toback, di Harvey Keitel) e che non si discutono. Ed il modo di riprenderli, movimenti di macchina, poi il montaggio, tutte cose sulle quali Tavernier conosce il fatto suo. Fin troppo. Ci sono alcuni movimenti "bellissimi" di apparecchio nel film: due aperture, per esempio, alla gru, con lo spazio cinematografico che si allarga, e che Tavernier sa filmare indubbiamente come non molti. Che introducono splendidamente lo spettatore in un ambiente. C'è soprattutto una citatissima sequenza di inseguimento nel labirinto di una festa campestre. La protagonista, dopo aver accettato il mercato imposto sulla propria pelle, cerca di sfuggire agli inseguitori con cinepresa. E di fuggire fuori dal quel mondo degenerato, per vivere la propria morte, è il caso di dirlo, in pace. Per ritrovare quel mondo, quei valori, quella natura che aveva perso. Romy Schneider fugge all'impazzata nel luna park; e la cinepresa, il reporter, la troupe televisiva, la degenerazione, noi tutti quindi, le andiamo dietro attraverso quel famoso occhio della cinepresa. Il tutto è frenetico, altamente spettacolare, fin troppo perché almeno al sottoscritto quel genere di evoluzioni finisce con conferire una sensazione poco piacevole di instabilità digestiva. Tecnicamente la sequenza la si spiega con l'utilizzo di un aggeggio che si chiama "steadycarn", una specie di cinepresa appoggiata e dei bilancieri, con un peso sotto che la mantiene costantemente in verticale, evitando quei sobbalzi tipici della cinepresa portata a spalla (anche le sequenze più suggestive di SHINING, l'ultimo film di Kubrick, sono state girate allo stesso modo). Ma tutto quel trambusto Tavernier ce lo poteva evitare: ci mostrava la Schneider con una cinepresa ben fissa per terra, che svicolava per certe stradine; e noi avremmo capito benissimo che voleva trasmetterci il senso di fuga, di liberazione della medesima. Invece la sequenza con la steadycam finisce col trasmettere soltanto il piacere fine a se stesso del cineasta di utilizzare il marchingegno. E tutto il film è un po' così. Tutti quei livelli, quegli sguardi differenti, sui quali la storia si appoggia finiscono col creare una confusione terribile. C'è la visione soggettiva del protagonista-cinepresa; c'è quella, distanziata, degli schermi televisivi che osservano il tutto; e c'è ancora quella del regista, che vuol essere la nostra. Quella che deve, alla fine, giudicare. Ma noi, frastornati, cosa possiamo ormai giudicare? Nel film tutto è stato insomma previsto, predisposto per permettere ad un cinefilo come Tavernier di sviluppare i suoi discorsi, morali, politici, esistenziali, estetici. Ma i conti, la somma degli addendi, non tornano: ci voleva forse un genio per coniugare tutte quelle dimensioni. O un po' più di modestia. n questo senso il cinema di Tavernier è tipico di gran parte di quello francese degli ultimi dieci anni. Una sovrabbondanza di motivazioni intellettuali, di rinvii critici, linguistici che finiscono, anche quando l'autore è un uomo che ama il cinema, ad uccidere sul nascere ogni parvenza di poesia.


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