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IL GRANDE UNO ROSSO
(THE BIG RED ONE)
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  Stampa questa scheda Data della recensione: 6 novembre 1980
 
di Samuel Fuller, con Lee Marvin, Robert Carradine, Stéphane Audran, Serge Marquand (Stati Uniti, 1980)
 
Il film più recente di Sam Fuller non contraddice quella che sembra essere la costante di questo autore, l'ambiguità. THE BIG RED ONE è sicuramente un film importante. Non solo perché una parte della critica ha gridato al capolavoro (un'altra ha gridato d'orrore, è bene precisarlo subito): ma perché questa cronaca dei lunghi anni della Seconda guerra mondiale è il progetto più caro, da molti anni meditato dal regista. Fuller è sempre stato massacrato dalla produzione: e questa sua natura di regista maledetto è in contraddizione (una delle tante...) con la sua natura di reazionario, definizione che ha accompagnato il suo cinema per decenni. Perché mai, infatti, gli uomini dell'industria, del commercio, del cinema dovrebbero temere un reazionario?

Anche nel caso di questo suo ultimo film il regista non ha avuto carta bianca: e questa sua confessione intima, in chiave di cronaca guerriera, è stata ridotta da quattro a due ore. IL GRANDE UNO ROSSO è, come tutto il cinema di Fuller, più che ben fatto. La violenza, il tema che il regista ha sviluppato per tutta la vita, la condizione dell'uomo sottoposto alle leggi straordinarie della guerra, sono esaminate con grande lucidità. Fuller non usa la violenza come Peckinpah, per farne dello spettacolo. Nel suo film vedrete scorrere poche gocce di sangue, forse nessuna. In compenso, la realtà è descritta non solo con impeccabile abilità tecnica ma con uno stile, forse anche con una morale che si vogliono asciutti, nitidi, tagliati con lo scalpello. Dalla vastità del dramma storico che si compie attorno ai personaggi, al dettaglio che questo maestro dell'intimismo riesce a scovare in quegli stessi personaggi, il suo cinema compie un arco di analisi espressiva che non è da poco.

Due sequenze aprono e concludono il film. Esse condensano il significato della riflessione che è alla base del film: un istante prima del termine di una guerra uccidere è non solo legittimo, ma doveroso. Un istante dopo, significa assassinare: la differenza, che la lingua inglese rende esattamente, tra "murder" e "kill". E, come si dice nel film, "We can't murder anybody. You don't murder, you kill. It's the same thing. You don't murder animals, you kill."

THE BIG RED ONE è quindi un film pacifista, Fuller non ama la guerra, e questa è la visione onesta di come vede un teatro di violenza un uomo che ha dedicato la propria vita alla descrizione della violenza. Il ritegno, il distacco con il quale l'autore ha saputo dissertare su questa violenza, trasformarla da dinamica esteriore e spettacolare a ragione di distruzione interna, morale, degli individui, fa di questo film un capolavoro. Cosi, gli estimatori. Per gli altri, il film non sfugge invece alla regola: il solo fatto di volersi immergere, oggi, nel 1980, nell'atmosfera di quegli avvenimenti, nel piacere di filmare le divise dell'Afrika Korps, gli elmetti dei Marines o il cigolio dei carri armati scovati fra i ferrivecchi del genere, denuncia ad ogni istante una sola cosa, appunto, "quel piacere".

Esprimere un parere non è facile, proprio per quella ambiguità di cui si diceva. Nulla è più ambiguo, e più difficile da usare e da recepire, dell'uso della violenza nel cinema. Il film esprime la volontà di ricordare e di meditare su degli avvenimenti che hanno marcato in modo fondamentale gli anni nei quali un uomo, un artista si forma. E la sincerità, diretta, priva di artifizi, con la quale questa meditazione ci giunge stimola il rispetto. E anche l'ammirazione per chi ama la forma del cinema di Fuller. Confessiamo di non esser toccati, in modo altrettanto diretto, dalla forza di questa forma: le scene di guerra del film ci sono sembrate efficaci e ben fatte. Ma anche risapute e già viste. Un'impressione di qualcosa tirato fuori dal solaio non al momento giusto. Quando, cioè, le preoccupazioni, forse le mode dei tempi, sono altrove. E allora, senza lo stimolo di quell'ammirazione, di quella sollecitazione che spesso la dinamica delle grandi opere di Fuller ci aveva trasmesso, anche tutto il resto ha finito col lasciarci un poco indifferenti,


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