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IL DIAVOLO PROBABILMENTE
(LE DIABLE PROBABLEMENT)
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  Stampa questa scheda Data della recensione: 22 febbraio 1979
 
di Robert Bresson, con Antoine Monnier, Tina Irissari, Henri de Maublanc (Francia, 1977)
 

“E’ più importante ciò che si toglie dallo schermo di quanto si aggiunge”. Il segreto dell'arte di Robert Bresson, quella specie di aquila solitaria in un mondo così sovente simile alla fauna da bassa corte com’è il cinema, sta racchiuso in quella piccola frase. Le diable probablement non è forse il miglior film di Bresson. Il suo discorso finale non raggiunge le vette trascendenti dei suoi capolavori, Pickpocket, La passione di Giovanna D'Arco, Mouchette, Au hasard Balthasar. E nemmeno quella dell'opera precedente, Lancillotto e Ginevra dove, grazie alle armature dei cavalieri medioevali, creava un poema straordinario sulla solitudine dell'uomo.

Comunque sia, tutto quanto tocca questo mitico sovrano del linguaggio cinematografico, si tramuta in oro. Anche questa vicenda di giovani, così convenzionale, così piccolo-borghese. Rifiutiamoli, questi modelli di giovani, hanno detto coloro che non amano il film. Questi manichini che parlano come dei mediocri filodrammatici, che si spostano con la spider, dicono e fanno delle cose che vediamo da anni nei peggiori telefilm televisivi.

Bresson, si ama o si detesta. Per detestarlo basta fermarsi alle apparenze, sfogliare le sue immagini come se fossero quelle di Lelouch o di Novella Duemila. Per amarlo occorre, innanzitutto, dimenticare più di mezzo secolo di cinema. Dimenticare tutte le cose inutili, volgari, teatrali nel senso deteriore della parola, che migliaia di mestieranti hanno ficcato in un seguito di immagini chiamate film. I suoni inutili, le musiche invadenti, le recitazioni grandiloquenti, gli effetti fotografici estetizzanti. Il cammino di Bresson è sempre stato in senso inverso: più gli altri aggiungevano, più egli cercava la purezza, la semplicità.

La storia di Le diable probablement non significa niente, potete dimenticarvela dopo cinque minuti, evitare lo sforzo di comprenderne lo svolgimento, le relazioni fra i personaggi, il significato letterale dei dialoghi. Fin dall'inizio sappiamo che il giovane protagonista vuol suicidarsi; fin dall'inizio sappiamo che ci riuscirà. Il film è la storia di un lungo suicidio. In questa lunghezza sta tutta la disperazione, tutta la lucidità di Bresson. In Mouchette, nel 1967, il regista era già stato accusato di crudeltà eccessiva: perché aveva parlato di una bambina, delle sue difficoltà, della sua disperazione. Poi, nella sequenza finale, la bimba faceva una capriola sull'erba, piombava in uno stagno, e si ammazzava. Quel passaggio fulmineo dalla vita alla morte, dai giochi infantili alla età delle decisioni irrevocabili è un grande momento di cinema, una di quelle intuizioni espressive che rimangono per sempre.

Qui, la sorpresa non è più necessaria. In un mondo del quale è descritta la morte ecologica, il giovane protagonista non può certamente aggrapparsi ai valori tradizionali: famiglia, religione, scienza, polizia, psichiatria. Il sole scompare, gli alberi vengono abbattuti in tonfi solitari, la luce si fa fioca; e con essa i colori, che stingono ormai nei bruni, nei grigi e nei verdi pastello. Scandito dalle porte che si aprono e rinchiudono, delimitato dalle pareti delle quali indoviniamo la gelida materia, immerso in un mondo di suoni e di silenzi agghiacciante (è con il “sonoro”, che il cinema ha scoperto il “silenzio”), l'ambiente del film inghiotte progressivamente il protagonista. I suoi passi, assieme a quelli di altri giovani, finiranno sui selciati dei bordi della Senna. Di notte, fra bagliori di fuochi morenti, echi soffocati di chitarre, si celebre la fine di un mito: quello della evasione, della ribellione, della speranza. Simbolo inconfondibile per mezzo secolo di cinema francese, la Senna, l'eco dei passi sulle sue rive parigine, diventa qui pietra tombale, dalla risonanza espressiva tremenda, di un mondo di speranza da noi definitivamente distrutto.


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