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LA CROCE DI FERRO
(CROSS OF IRON)
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  Stampa questa scheda Data della recensione: 2 gennaio 1978
 
di Sam Peckinpah, con James Coburn, Senta Berger, Maximilian Schell, James Mason (Stati Uniti, 1977)
 
Che Sam Peekinpah sia un uomo di cinema padrone come pochi del proprio mestiere, nessun dubbio. Le sue opere maggiori, da SFIDA NELL'ALTA SIERRA, che lo rivelò, a MAJOR DUNDEE, per alcuni il suo film più compiuto, a IL MUCCHIO SELVAGGIO, che per primo codificò l'attaccamento al limite dell'ambiguità del regista per la violenza, a CANI DI PAGLIA, studio della meccanica di questa violenza condotto con una puntigliosità a tratti insostenibile, tutte queste opere testimoniano il talento di un narratore in immagini superiore alla media. Le discussioni incominciano a nascere quando si tratta di discutere se Peckinpah è un pittore della violenza a fini critici, oppure semplicemente un utilizzatore della violenza a fini spettacolari. CANI DI PAGLIA ha fatto dire di lui che era un grande vivisezionatore dei meccanismi umani che conducono all'abuso della forza; ma anche che era, semplicemente, un fascista.

Non credo che LA CROCE DI FERRO convincerà gli uni o gli altri della giustezza delle proprie opinioni. La mia è che la violenza va presa al cinema con le pinze: perché è facile restarne sedotti. In questo senso il gusto della dinamica, dell'azione come base di discorso, è in Peckinpah estremamente pericoloso. Che la violenza dei western "all'italiana", tanto per rimanere nel genere, sia fine a se stessa, è un fatto assodato. Il guaio, con quella di Peckinpah, è di essere più subdola, di essere mascherata dietro le pieghe di un discorso ambiguamente critico.

Nella CROCE DI FERRO, che si svolge in Russia, durante la ritirata delle truppe di Hitler, Peckinpah ci propone il suo abituale teatro di commedia umana, la guerra. Mondo fatto di uomini per uomini, mondo nel quale i valori escono amplificati, sublimati, esemplari. Le donne stanno a casa, lontano coi figli, o forniscono qualche ora di rilassamento sessuale agli eroi in congedo, sotto le vesti di appetitose crocerossine. Il ruolo di Senta Berger in questo senso non è sicuramente nella linea femminista dei tempi (i nostri, non quelli di allora). Due protagonisti: uno è Maximilian Schell, capitano che arriva fresco fresco dalla Costa Azzurra. È fanatico e in caccia di Croci di Ferro, senza le quali non potrebbe tornare a casa. Stirpe prussiana, guerra intesa come commercio, eccetera. Qui Peckinpah ci dà dentro con indignazione, additandolo al pubblico disprezzo. E va bene. Poi c'è l'altro, James Coburn. Che è valoroso, sempre in prima fila, e non dietro, ai propri uomini. Scettico su Hitler, i colonnelli e la guerra. Ma intanto sgozza che è un piacere. Ecco, Peckinpah sta con chi, in definitiva? Sta con Coburn che non ama, in teoria, la guerra, le medaglie (ma intanto le porta), la carriera, le caste sociali che si rinnovano nella vita militare, la meccanica della violenza.

Sta con Coburn, perché questi gli permette di dipingere il mondo che lui, Peckinpah, predilige. Quello dell'onore, dei valori umani eterni, dell'amicizia virile. Mondo estetico (e tutto il cinema di Peckinpah si basa sull'estetica) fatto di scoppi, dì salti, di sventramenti. Western o film di guerra, la lingua sua batte sempre sui medesimi registri: la dinamica della violenza, dipinta e ridipinta incessantemente (è diventato anche noioso) al rallentatore. Per ottenere quel clima artistico che, ottimisticamente, viene definito iperrealista.

Anche ammesso che questo incensamento della forza non sia reazionario, occorre dire che LA CROCE DI FERRO è un susseguirsi di assalti in trincea piuttosto barbosi: e che il discorso "ideologico" alla base lo si capisce dopo cinque minuti. Se CANI DI PAGLIA era un film forse reazionario, ma anche, occorre dirlo, affascinante ed abilissimo, LA CROCE DI FERRO è probabilmente un film reazionario, ma in più noioso.


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