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ROCKY Film con lo stesso punteggioFilm con lo stesso punteggioFilm con lo stesso punteggioFilm con lo stesso punteggio
  Stampa questa scheda Data della recensione: 12 maggio 1977
 
di John G. Avildsen, con Sylvester Stallone, Talia Shire, Burt Young, Carl Weathers, Burgess Meredith (Stati Uniti, 1976)
In film come questi trovi un po' di tutto. Trovi, innanzitutto, questo interprete Stallone, che ha scritto anche la sceneggiatura, e che quindi ha avuto lui l'idea di fare un film a quel modo. Questo Stallone, quando lo vedi nelle foto, sembra piuttosto appartenere, con tutto il rispetto, ad una razza apparentata a quella bovina. Nel film, invece, ha un viso espressivo nella sua apparente immobilità. Un modo di muoversi, di guardare che dona una sua carica di umanità.

ROCKY è soprattutto, l'incontro fra un regista non insignificante (LA GUERRA PRIVATA DEL CITTADINO JOE) ed un attore-personaggio. Ed il film funziona quando il personaggio di Stallone è messo a fuoco: ad esempio, nella sequenza dell'allenamento notturno per le strade di Filadelfia. Dove il mutamento interno del protagonista (da vinto a vincitore morale) è ben esteriorizzato dal regista. Il film comincia a funzionare assai meno quando inquadra gli altri personaggi: da quello della ragazza, insipido e risaputo quadretto della donna in golfino grigio ed occhiali antiestetici, come appare nelle sequenze iniziali; e della quale sappiamo benissimo che alla fine sarà, “toh”, quasi bella e sensuale. A quella dell'allenatore, o degli avversari neri, schematici, insistiti o melensi. Il film funziona poco quando ricalca (e lo fa per la per la maggior parte del tempo) lo stile e le atmosfere di un certo neorealismo sentimentale in voga negli Stati Uniti vent'anni fa: quello, per intenderci, alla MARTY, di Martin Ritt e compagni. Tipiche, di questo cinema, l'ambientazione degli interni, la costruzione facilmente emotiva e paternalistica, oltre che largamente prevedibile, di una scena come quella dell'incontro fra Rocky ed il suo allenatore. Il film, infine, lascia più che dubbiosi quando, da un punto di vista ideologico, riprende il tema mitico della riuscita nel mondo americano, della “chance” che ad ognuno è offerta, ad un certo punto della vita, dal “caso” (vedi le commedie brillanti degli anni trenta), ma soprattutto dal tipo di sistema.

Ora, non è tanto del sistema che si vorrebbe discutere (il discorso porterebbe lontano), ma piuttosto del tipo di felicità che questo genere di fede intende proporre. In pieno periodo di “boom” del cinema americano, cinema basato (nei suoi momenti più alti, ovviamente) proprio sulla critica dei falsi miti sui quali il cinema (e la società che produceva questo cinema) si basava, ecco un film come ROCKY. Che allegramente ripiomba nella filosofia spiccia del datti da fare, e sii buono col prossimo, che vedrai che farai fortuna. Detto questo non si può negare a ROCKY una certa qual carica di simpatia, che proviene dal personaggio, dai dialoghi spesso filati e spiritosi (malgrado il doppiaggio), di istintiva naturalezza che è tutta del protagonista. E sicuramente non dallo stile del regista, con le tentazioni melodrammatiche che abbiamo visto.


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