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L'ASSASSINIO DI UN ALLIBRATORE CINESE
(THE KILLING OF A CHINESE BOOKIE)
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  Stampa questa scheda Data della recensione: 23 ottobre 1980
 
di John Cassavetes, con Ben Gazzara, Timothy Agoglia Carey, Azizi Johari, Seymour Cassel (Stati Uniti, 1976)
 
"Nel cinema di John Cassavetes le "storie" contano poco. Così, per darvi egualmente una vaga idea, diciamo che L'Assassinio di un allibratore cinese parla del proprietario di un locale di spogliarello che fa il proprio mestiere con passione. Ma che, in seguito ad un debito di gioco è costretto a commettere un omicidio su ordinazione.

Ma, come detto, a Cassavetes non interessa la storia ed il suo sviluppo. Cassavetes è nato, cinematograficamente, in un momento ben preciso: attorno al 1960, quando con la Nouvelle Vague in Francia, con il Cinema Novo nell'America latina, con il Free Cinema in Gran Bretagna, e, appunto con la scuola di New York negli Stati Uniti, si decideva una volta per tutte di voler rompere gli schemi, le convenzioni che regolavano un cinema ormai sclerotizzato, le formule dettate dai sistemi industriali imperanti nel mondo dello spettacolo.

Con il (relativamente) celebre Shadows (Ombre, 1960) Cassavetes chiariva il suo modo di vedere: la verità, la realtà andava cercata con dei mezzi vicino al documentario, ma un documentario basato su degli attori. Una situazione, insomma, rovesciata: su degli attori, su una situazione umana si produceva un comportamento umano. S'inventava il documento, la verità su degli attori che seguivano una determinata finzione. Al regista interessa un personaggio, i rapporti con il mondo che lo circonda, i condizionamenti che l'uomo subisce dall'ambiente. Delle psicologie inserite nella società in cui viviamo.

"Per me, l'attore è la forza creatrice fondamentale. Se la sua comprensione, se il suo approccio alla materia trattata sono positivi allora il film è riuscito; ed il lavoro dei tecnici diventa quasi secondarlo."Ovvio, a questo punto, che tutto debba nascere, nel cinema di Cassavetes, da questa intimità fra regista e attore: e le interpretazioni, forse improponibili nel cinema di oggi, di Gena Rowlands, di Ben Gazzarra e di tutti gli altri attori che regolarmente fanno parte della banda di Cassavetes sono il risultato di questa intimità. Tutto, nel cinema del regista, è sacrificato a questo scopo: il personaggio dev'essere colto nel modo più naturale possibile, con la maggiore immediatezza e semplicità. Così, quindi, i tempi sono spesso vicini a quelli reali, le durate sono circoscritte. Faces dura un paio di giorni, Husbands (Mariti) una notte, quattro giorni Minnie e Moskovitz; due lunghe scene, separate da un'ellissi di sei mesi, per Una moglie. Pochi giorni per l'Allibratore cinese, e così via.

In questo tempo, e spazio limitato la macchina da presa s'incolla ai personaggi. Li scruta in ogni loro gesto, in ogni loro piccola reazione con una sola regola fissa: quella della massima semplicità. La cinepresa di Cassavetes è sempre al posto più diretto, più logico. Osservando l'estrema originalità dei suoi temi, il fatto che egli non assomigli veramente a nessuno, viene da chiedersi se tutti gli altri non abbiano perso, invece, il dono della semplicità, della naturalezza.

Cerchereste inutilmente uno stile, una regola nel cinema di Cassavetes, proprio perché è dalla mancanza di regole che nasce il suo tono inimitabile. Agli attori è lasciato tutto il tempo a disposizione. Anzi, più del tempo necessario. Con dei tempi lunghi, con una scena che non finisce quando la convenzione vuole che finisca, con un tempo "vuoto" alla fine da riempire, l'attore sarà costretto ad esprimere, a concedere del suo. In quegli interminabili secondi che mancano al "cut" del regista, e che bisogna pur colmare, l'attore finisce con l'esprimere quello che appartiene al personaggio di più intimo e vero.

I film di Cassavetes non sono mai delle storie, ma una serie di ritratti, sconvolgenti di verità, su degli individui, e sui rapporti che questi individui hanno con il mondo che li circonda. Come farfalle impazzite essi vengono sospinti dalla cinepresa in ambienti raccolti, camere d'albergo, scantinati, scale, cucine, locali notturni. Stretti contro le pareti dall'occhio della camera, negli angoli delle stanze. E poi lasciati andare, una volta svuotati del loro contenuto umano.

I film di John Cassavetes, egualmente, non hanno una fine, così come non hanno una storia. Questi termini sono quelli di una convenzione narrativa che l'autore ha sempre rifiutato. Le sue storie si svolgono all'interno dei personaggi. E in quella prospettiva affascinante la nozione di fine ancora non è stata scoperta."


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