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KING KONG
(KING KONG)
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  Stampa questa scheda Data della recensione: 30 dicembre 1976
 
di John Guillermin, con Jessica Lange, Jeff Bridges, Charles Grodin, John Randolph, René Auberjonois (Stati Uniti, 1976)
 

I dollari, una volta tanto, non hanno ucciso il cinema. Creato dalla penna di Edgar Wallace, portato sullo schermo nel 1933, il gorilla gigante King Kong è da allora uno dei miti cinematografici. Come Valentino, l'Angelo Azzurro o la diligenza di OMBRE ROSSE. La tecnica ha fatto progressi: sul piano dello spettacolo, della ricostruzione meccanica, il nuovo King Kong è straordinario. Come siamo riusciti a farlo muovere, a dargli quell'espressione degli occhi, a dimensionarlo fra i grattacieli di Nuova York non chiedetemelo, perché non lo so. Ma è straordinariamente ben fatto. Il grande mestiere di Guillermin (LA TORRE INFERNALE), specialista in questo genere di ricostruzioni terrificanti, non ha ucciso però i motivi che già circondavano il primo KING KONG. E questa è la gradevole sorpresa che ci offre questo remake. Quanto scrivevano 35 anni fa è rimasto intatto: “Per l'assurdità della favola, la violenza potenza onirica (rappresentazione fortemente realista di un sogno frequente), l'erotismo mostruoso (amore smisurato tra il mostro e la donna), l'irrealtà di certe scenografie, o meglio ancora per la somma di questi valori, il film sembra essere la risposta all'aggettivo “poetico”, ed alle speranze che noi riponiamo nel cinema quale terra di elezione per questo genere di poesia”.


Il tema della bella e della bestia, i simboli erotici evidenti si coniugano qui con una specie di messaggio ecologico, di critica alla società del consumo che, per quanto espresse in un contesto commerciale ed anche a volte semplicistico, non perdono comunque una loro indubbia efficacia. Nell'edizione attuale il gorilla gigante è catturato da una banda di petrolieri, e trasportato a Nuova York per reclamizzare una marca di benzina. Il gioco individuale amore-repulsione tra la donna e la scimmia si ripercuote, più generalmente, in quello fra l'armonia esistente nell'isola dal rapporto dio - Kong - indigeni e la rottura disgregatrice apportata dall'intrusione della “civiltà”. Se l'aneddoto appartiene a tutto un cinema di consumo, con le sue formule e la sua insipienza, Guillermin ha saputo donare degli accenti di verità alla parte più delicata dell'opera: i rapporti fra il gorilla e la donna


In KING KONG il fantastico morale (l'amore tra la bella e la bestia) diventa credibile. Mentre rimane incredibile il fantastico materiale (non per nulla, la sequenza fantascientistica della lotta fra il gorilla ed il serpente gigante è un momento di rottura di tono, di caduta emotiva del film). E le sequenze di Nuova York sono rese autentiche e quasi credibili proprio grazie alla resa genuina del rapporto affettivo che viene a crearsi fra la donna (e gli spettatori) ed il gorilla. KING KONG, prodotto per eccellenza della grossa industria per il grosso pubblico, diventa così un'arma, efficace anche perché di larga udienza, contro tutta una serie di contraddizioni della nostra società, di aberrazioni del nostro sistema. E' curioso un raffronto con IL MARATONETA, recensito una settimana fa. Schlesinger voleva farne un'arma di accusa contro la degenerazione fascista della nostra società: ma le regole commerciali del racconto si ritorcono contro gli intenti dell'autore. In King Kong i mezzi indubbiamente commerciali a disposizione del regista sono usati con intelligenza: il film prende visione di una situazione morale e sociale. Malgrado l'evasione nel fantastico, e anzi forse proprio grazie a questa, invita lo spettatore alla presa di coscienza di alcuni problemi che gravemente gli appartengono.


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