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IL GIOCO DELLA MELA
(HRA O JABLKO)
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  Stampa questa scheda Data della recensione: 11 febbraio 1982
 
di Vera Chytilova, con Dagmar Blahova e Jiri Menzel (Cecoslovacchia, 1976)
 
"Per me la tragedia è burlesca. Se sono triste, devo ridere. Non riesco a convincere in modo razionale, ma soltanto attraverso il riso. Ecco perché ho rinunciato definitivamente a fare qualcosa di serio. Anche se si tratta di un soggetto grave". È quanto dichiarava Vera Chytilova a "Le Monde", già al tempo del suo successo maggiore, Le margheritine, del 1966. Quindici anni dopo, questo discorso sembra ormai una specie di manifesto della regista cecoslovacca, una delle prime donne-cineaste riuscite a sfondare nel terreno minato del cinema internazionale di qualità.

Pittrice sensibile dell'animo e della condizione femminile, Vera Chytilova è anche da sempre alla ricerca di un mondo di valori giusti, di una limpidezza morale che si è ormai persa nel gioco degli automatismi di comportamento, che dimenticano l'uomo a profitto di uno pseudo-razionalismo, non solo materiale ma soprattutto spirituale. Così l'eroina del Gioco della mela, infermiera novella in una clinica ginecologica di Praga, profuma ancora della campagna dalla quale è appena sbarcata. È la sola, in un universo robotizzato fino al cinismo, a saper donare la vita con una partecipazione che non sia soltanto scientifica. È la sola fra tanti ginecologi, lo vedremo in una bella sequenza, a saper far nascere un vitello.

Di quel profumo di campagna gli uomini della clinica (e anche il medico giovane del quale si innamorerà la protagonista, interpretato con entusiasmo ed attenzione dal noto regista Jiri Menzel) apprezzano quasi esclusivamente la forma, invero non disdicevole. Ma per ritrovare se stessa la giovane dovrà partire, incinta, per una clinica di campagna. La vedremo scomparire in bicicletta fra i viali del parco con tanto di pancione e abito rosa, fra le mele mature e ahimè ormai anche marce, delle quali ci parla il titolo del film. Fresca ed incisiva nelle idee, Vera Chytilova lo è altrettanto nel modo di esprimersi. I suoi primi piani spregiudicati, il suo montaggio irruente, la cinepresa che volteggia disinvolta non sempre rispettano le misure. Talvolta l'umorismo è un po' forzato, ci sono troppe macchie di sangue dissacranti sui camici dei medici e la sinfonia dei bebè implacentati che escono come bolle all'aria limpida è un tantino insistita. Ma questo suo modo di avvicinarsi alle cose con la lente di ingrandimento, quel suo primo piano macroscopico della protagonista con il viso accostato ad uno dei tanti neonati, serve ad avvicinare alla verità delle cose. A delle regole che rimontano ad Adamo ed Eva e che abbiamo smarrito cammin facendo. Serve, tanto entusiasmo anche un po' eccessivo, ad evitare il gran pericolo del moralismo. "


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