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IL DESERTO DEI TARTARI Film con lo stesso punteggioFilm con lo stesso punteggioFilm con lo stesso punteggioFilm con lo stesso punteggio
  Stampa questa scheda Data della recensione: 31 marzo 1977
 
di Valerio Zurlini, con Jacques Perrin, Vittorio Gassman, Giuliano Gemma, Philippe Noiret, Jean-Louis Trintignant, Max von Sydow, Laurent Terzieff, Fernando Rey, Francisco Rabal (Italia, 1976)
Fare del grande cinema da un grande romanzo è cosa praticamente impossibile. Filmare quella che è una delle opere più affascinanti di tutta la letteratura contemporanea, il romanzo di Dino Buzzati, è impresa a priori disperata. Il cinema, oltre ad una concretezza dell'immagine rappresentata alla quale non può sfuggire (degli attori, un ambiente, degli oggetti che si materializzano davanti ai nostri occhi nel momento stesso nel quale ci sono mostrati) ha una durata, una sua progressione nel tempo, dalla quale si può dipartire solo relativamente. Il romanzo di Buzzati è una vicenda nella quale il vuoto ed il tempo svolgono il ruolo determinante: in questo vuoto ed in questo tempo gli individui vedono fuggire i propri ideali, i propri valori, persino la ragione della propria morte.

Zurlini fatica a filmare, in questa dimensione cinematograficamente così difficile da ricreare, l'attesa. Non fa altro che filmare dei personaggi che passano il tempo a dirsi uno all'altro, e quindi a noi, di aspettare. Zurlini (LA RAGAZZA CON LA VALIGIA, CRONACA FAMILIARE, Leone d'Oro a Venezia nel 62) è un colto, elegante illustratore.

Alltro occorre di una raffinata sensibilità per gli sfondi, di natura piuttosto letteraria, per rendere l'angoscia kafkiana del Deserto dei tartari. Ha scelto degli ambienti stupendi (una fantastica fortezza ai bordi di una città morta, ai confini dell'Iran), degli ottimi attori internazionali che fanno correttamente il proprio dovere, una fotografia accurata. ma non c`è un istante nel film durante il quale il significato dell'immagine trascenda la realtà illustrata. Zurlini è dotato per l'astrazione, per la dimensione metafisica, come Resnais per fare dei western. Ci mostra uno splendido deserto, delle cime misteriose innevate, delle nebbie che si levano verso quei confini ignoti. E dei personaggi che scrutano questi bei paesaggi dai bastioni della fortezza, e che dichiarano di aspettare che arrivi qualcuno o qualcosa.

Ma lo sbaglio più clamoroso di Zurlini (e forse, ancor più di lui, degli sceneggiatori) è quello di mostrare, con una immagine certamente suggestiva dal punto di vista plastico ma incredibilmente dissacrante ed ingenua da quello metafisico, le orde dei tartari che avanzano alla fine del film. Perché il capolavoro di Buzzati è basato su due temi, l'attesa e la rinuncia finale Alla spiegazione del mistero; rinuncia intensa come profanazione. Non fosse che per quella sequenza, Zurlini butta a mare i significati più intimi dell'opera..

Non si tratta di contrapporre letteratura e cinema: il problema, per il regista, è quello di saper tradurre in un equivalente messaggio filmico la poetica della sorgente letteraria. Non vedo bene chi avrebbe potuto venire a capo del Deserto dei tartari: forse Visconti, al massimo della propria lucidità artistica. In queste condizioni Jacques Perrin, che aveva acquistato i diritti del romanzo (e che ne approfitta per mettersi bene in mostra …), avrebbe fatto molto meglio a lasciare il deserto nell'oblio di un cassetto. L'oblio splendido e disperato , l'attesa del nulla, il fascino e la illusione del vuoto e del tempo che appartengono soltanto a Buzzati; e che le belle immagini di Zurlini fatalmente distruggono.


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