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IL GATTO, IL TOPO, LA PAURA E L'AMORE
(LE CHAT ET LA SOURIS)
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  Stampa questa scheda Data della recensione: 17 giugno 1976
 
(Francia, 1975)
Lelouch è, in definitiva, un tipo curioso. Un caso abbastanza unico di cattiva digestione cinematografica. Credo ci siano pochi altri al mondo che avevano, all'origine, tante possibilità di diventare un grande cineasta come l'autore di UN HOMME ET UNE FEMME. Ed è forse per questo grande, ma imbarazzante potenziale che Lelouch è diventato il più noto dei registi impotenti. Talento fotografico, cultura cinematografica, esperienza di critico, intuizione nell'impiego del mezzo, sensibilità (teoricamente) poetica, capacità di sentire l'attore e di dirigerlo, grande adattabilità al gusto del pubblico. Putroppo Lelouch, dopo un paio di film (o forse subito…) è diventato soltanto il campione di questo suo ultimo attributo. Il suo cinema è da sempre costruito in funzione del pubblico: di quello che il pubblico, in un determinato momento, vuole dallo schermo. Di quello che la moda estetica, e psicologica, richiede. Chiamatela furbizia, o fate voi.

Esempio: tanti anni fa, Lelouch si è accorto (forse come critico, forse come spettatore, forse come amico) che Godard aveva riscoperto la “caméra sur l'épaule”. Cioè, che mettendo la cinepresa sulla spalla, e inseguendo così gli interpreti nei loro spostamenti, il racconto risultava alleggerito. La macchina da presa fissa, sul treppiede, dava un quadro statico e tradizionale. Quella, un po' traballante, portata a mano, faceva più vero, immediato, spensieratamente giovane. Ancora: che mettendo un attore di faccia, facendolo parlare mentre guarda la platea, si otteneva un altro effetto di verità, di immediatezza, di documento, di confessione. Oppure: che riprendere un colloquio alternando le due inquadrature fisse degli interpreti faceva “tradizionale”. Mentre invece seguire con il movimento della camera la figura di chi parlava, senza staccare l'immagine, andando da uno all'altro, faceva più vero. Come se, tanto per intenderci, uno fosse capitato lì per caso, e seguisse il discorso volgendo la testa. Si potrebbe continuare per delle ore, citando quei dettagli del linguaggio che forse sfuggono allo spettatore, ma che in definitiva conferiscono al film il tono.

Ora, se è chiaro che quelle cose non le ha inventate Godard, e che sono in tanti ad usarle in modo balordo, non c'è nessuno al mondo che ne abusa quanto Lelouch. L'inganno, l'impostura sua sta proprio in quello: perché non si tratta di usare qualcosa a sproposito. Ma di contrabbandare per vero quello che è falso. Non si può, come fa Lelouch, riprendere in “soggettiva” uno che porta la zuppa in tavola. Cioè mettere la cinepresa al posto di quello che porta la zuppa, mostrare allo spettatore la tavola che si avvicina, i commensali che lo guardano, attraverso il fumo del minestrone. Perché una “soggettiva” (la cinepresa al posto di colui che agisce) significa un momento emotivamente privilegiato del racconto. E portare il minestrone in tavola (a meno di essere Hitchcock e di averci messo il veleno, ma questo è un altro discorso), non è un momento privilegiato di un film.

Le opere di Lelouch sono zeppe di procedimenti cinematografici, esibiti a caso, di movimenti di cinepresa inutili, di stacchi eseguiti alla carlona, di costruzione arzigogolate, di effetti fotografici rubacchiati qua e là.

Il risultato è un film come IL GATTO, IL TOPO, eccetera, cioè un poliziesco-sentimentale che non ha né sentimento né tensione. Un pasticcio zeppo di “flash back”, di tagli, di sfumature. Un compiacimento intellettuale e commerciale mal fatto e incomprensibile, oltre che ininteressante. Peccato per Reggiani che è grande: ma il suo gatto rimbambito si morde la coda.


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