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IL FASCINO DISCRETO DELLA BORGHESIA
(LE CHARME DISCRET DE LA BOURGEOISIE)
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  Stampa questa scheda Data della recensione: 24 gennaio 1974
 
di Luis Buñuel, con Fernando Rey, Paul Frankeur, Delphine Seyrig, Bulle Ogier, Michel Piccoli, Stéphane Audran, Jean-Pierre Cassel, Milena Vukotic (Spagna, 1972)
 

Il grande spagnolo del cinema (c'è gente che dice anche qui, come nella musica, esistono tre grandi "B", Bergman, Bresson e Bunuel) ha sempre amato nascondere i significati dei suoi film dietro i simboli, i sogni. Non per niente gli inizi della sua carriera, e della sua ispirazione risalgono ai tempi del surrealismo, al 1928 del CHIEN ANDALOU e de l'AGE D'OR.


Questa volta il senso dell'ultima opera di questo straordinario settantaquatrenne è più semplicemente racchiuso nel suo titolo, e nell'insolito manifesto che reclamizza il film: un cappello a bombetta e due enormi labbra sopra un paio di gambe femminili.


La bombetta è l'evidente simbolo della borghesia, un genere che Bunuel non ha mai particolarmente amato, così come il clero, l'armata o la polizia: che infatti sono assai bene rappresentati anche qui. Le labbra e le gambe sono, come dicono i francesi, "la bouffe et le cul", i due pilastri attorno ai quali ruota il film di Bunuel. Una serie ininterrotta di pranzi e di tentativi più o meno riusciti di coiti, continuamente riproposti e continuamente interrotti da incidenti vari (dal campanello della porta d'entrata, all'irruzione omicida di una banda armata), nel classico modo della commedia tradizionale "borghese".


IL FASCINO DISCRETO DELLA BORGHESIA non si costruisce sulla violenza demistificatrice di VIRIDIANA o di BELLE DE JOUR, l'ambigua sapienza di TRISTANA, il delirio simbolico della VIA LATTEA. E' giocato invece sulle corde più discrete, ma altrettanto corrosive, dell'umorismo, del dileggio, del ridicolo che rode, poco a poco, i suoi apparentemente rispettabili protagonisti, fino a mostrarne appieno la corruzione interna, la vanità morale. Nella descrizione di questo mostro che si autodistrugge divorando e copulando, Bunuel raggiunge ancora una volta quei risultati di denuncia, al tempo stesso rabbiosa e poetica, che lo hanno reso celebre.


Ma la dimensione seconda il film la raggiunge grazie al genio del regista di mescolare finzione e realtà, nell'uso di quell'arma potente ma anche difficile che è il sogno. E lo spettatore è rilanciato in modo impareggiabile dal tempo reale a quello onirico, che gli è svelato al termine della sequenza, quando è ormai preda della trappola.


Rilevazione doppiamente ambigua, perché egli si ritrova nuovamente coinvolto in un nuovo sogno, del quale si renderà conto più tardi, e così via, in un gioco di continui rimandi psicologici. Il sogno, per Bunuel non è una fuga facile dalle responsabilità dell'assunto ma, al contrario, il mezzo per giungere alla sintesi artistica delle proprie intenzioni. E ne è una prova splendida la sequenza nella quale i protagonisti, per la loro ennesima cena rituale, si ritrovano improvvisamente sul palcoscenico di un teatro, sotto le luci abbaglianti e rivelatrici della scena, sotto gli sguardi, soprattutto, degli spettatori. Scrutati, messi a nudo come sono da tanta implacabile ferocia, non potranno che dileguarsi striscianti. Per svegliarsi da quest'incubo angosciante; ma per ricaderne, immediatamente ed inconsciamente in un altro, in una fuga ormai inarrestabile verso la distruzione.


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