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  Stampa questa scheda Data della recensione: 15 febbraio 1973
 
di Pier Paolo Pasolini, con Hugh Griffith, Laura Betti, Ninetto Davoli, Franco Citti, Josephine Chaplin (Italia, 1972)
 
Pasolini continua il discorso de IL DECAMERONE e lo concluderà con IL FIORE DELLE MILLE E UNA NOTTE. Per il regista infatti, si tratta di un discorso ben preciso, sia sul piano del linguaggio che su quello dell'ideologia. Sul primo, Pasolini si reclama di uno stile tecnicamente auto-controllato in modo severissimo: nessun piano-sequenza, nessuna inquadratura che comprenda contemporaneamente i due protagonisti in un colloquio, scelta delle visioni frontali, eccetera. Su quello contenutistico Pasolini desidera, in questo momento della sua carriera, mostrare quello che i vari tabù non hanno mai permesso di rappresentare: determinati momenti, atti, accessori fisici che fanno parte dell'esistenza quotidiana dell'uomo ma che questi si è sempre imposto di nascondere a terzi per ragioni, secondo il regista, alienanti. Non dovrebbe esserci pornografia, e volgarità comunque (sempre secondo Pasolini) perché la sapienza, la cultura dell'illustrazione nobiliterebbe il tutto.

Questo discorso di Pasolini, letto sulle pagine del “Corriere” o del “Giorno” appare anche legittimo. Ma il discorso delle immagini su uno schermo, nel buio di una sala di produzione è spesso differente. Certo, non è colpa di Pasolini se il pubblico va a vedere queste sue opere proprio alla ricerca della pornografia e, non credo proprio, per liberarsene. Però mi sembra che, in misura ancora maggiore che con Boccaccio, sia proprio questa a dare il tono. Malgrado, e questo è grave, la sapienza dell'illustrazione. Cioè tutto si risolve, come sempre in cinema, a livello di linguaggio: le intenzioni di Pasolini (per utili o inutili che siano: intendo parlare di cinema in questa rubrica e non di morale, discorso che lascio volentieri ad altri) non si risolvono adeguatamente a livello formale. E per adeguatamente intendo: non si risolvono in arte, quindi in assenza di pornografia, in assenza di calligrafismo, eccetera.

Se penso a Ken Russell, per fare un esempio, ecco che la violenza, o la pornografia si sublimano a livello di linguaggio, per raggiungere dei significati più ampi, eterni, emblematici. Le immagini di Pasolini rimangono quello che sono: perfettamente illustrate, storicamente e letteralmente meditate. Ma da esse non si astrae: rimane l'aneddoto. E non utilmente liberatorio come desidera l'autore, bensì legato all'episodio, privo di quella facoltà di elevarsi a significati eternamente validi che le immagini ispirate dall'arte acquistano immancabilmente. Pasolini cerca un'equivalente cinematografico alla “chiacchiera” di Chaucer ma, sinceramente, non mi sembra che lo trovi. Il suo è un cinema dell'intelligenza, della cultura. Ma mai il cinema dell'intuizione geniale, di quell'istante bagnato dalla grazia durante il quale, non fosse che per un brevissimo momento in tutta una proiezione, le immagini si cambiano in una dimensione diversa, più vera e più pura.


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