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DUEL Film con lo stesso punteggioFilm con lo stesso punteggioFilm con lo stesso punteggioFilm con lo stesso punteggio
  Stampa questa scheda Data della recensione: 10 gennaio 1974
 
di Steven Spielberg, con Dennis Weaver, Tim Herbert, Charles Peel, Eddie Firestone (Stati Uniti, 1971)
 

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Un uomo, al volante di una comune utilitaria, sorpassa un camion. Questo, guidato da un individuo del quale vedremo soltanto gli stivali in una stazione di rifornimento, incomincia a seguire l'auto dapprima, ad incalzarla in seguito, a tentare di tamponarla ed infine di distruggerla, in un crescendo omicida al quale il protagonista esterrefatto cerca sempre più disperatamente di sfuggire.


Gli oggetti del film sono quanto di più materiale esista: automobili, strade, autogrill. Ma, i loro significati li spingono progressivamente verso l'irrazionalità più totale: la caccia del mostruoso autocarro all'utilitaria assume un chiaro significato simbolico. Imprigionato nel microcosmo ambulante il protagonista non può uscirne: quando tenta, l'autocarro gli piomba addosso. Quando cerca di chiedere aiuto ad altre persone si ritrova escluso da una umanità di testimoni alienati, di manichini prigionieri di una logica spietatamente indifferente. Un mondo agghiacciante che ricorda non poco gli straordinari abitanti degenerati dello splendido DELIVERANCE. La macchina, creata dall'uomo, rifiuta la sudditanza, forte della sua perfezione. E l'uomo non può più sfuggire se non, come nel finale del film, sacrificando l'oggetto-tabù, distruggendolo per non essere distrutto.


David Spielberg, al suo primo film, non racconta forse nulla di nuovo, ma lo racconta assai bene. Certo, non sempre le sue immagini hanno quel rigore, quella successione logica nella costruzione, che un regista più maturo avrebbe forse maggiormente posseduto. Ma ciò non toglie che DUEL si iscrive assai bene in quella corrente nuova del cinema americano che del mondo contemporaneo e dei suoi miti cerca di sottolineare il malessere latente, il tarlo sottile dell'angoscia.

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A man, at the wheel of an ordinary small car, overtakes a truck. The truck, driven by an individual whose boots we will only see at a petrol station, begins to follow the car at first, then to pursue it, to attempt to rear-end it and finally to destroy it, in a murderous crescendo from which the stunned protagonist tries ever more desperately to escape.

The objects in the film are as material as can be: cars, roads, service stations. But, their meanings progressively push them towards total irrationality: the monstrous truck's pursuit of the hatchback takes on a clear symbolic meaning. Imprisoned in the walking microcosm, the protagonist cannot get out: when he tries, the truck pounces on him. When he tries to ask other people for help, he finds himself excluded from a humanity of alienated witnesses, of dummies prisoners of a ruthlessly indifferent logic. A chilling world reminiscent in no small measure of the extraordinary degenerate inhabitants of the splendid DELIVERANCE. The machine, created by man, refuses subservience, strong in its perfection. And man can no longer escape except, as in the film's finale, by sacrificing the object-object, destroying it in order not to be destroyed.

David Spielberg, in his first film, perhaps tells nothing new, but he tells it very well. Of course, his images do not always have that rigour, that logical sequence in their construction, which a more mature director would perhaps have possessed. But this does not detract from the fact that DUEL fits in very well with that new current of American cinema that seeks to emphasise the latent malaise of the contemporary world and its myths, the subtle worm of anguish.

 


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