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DONNE IN AMORE
(WOMEN IN LOVE)
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  Stampa questa scheda Data della recensione: 16 gennaio 1972
 
di Ken Russell, con Glenda Jackson, Jennie Linden, Alan Bates, Oliver Reed (Gran Bretagna, 1969)
 
La locandina del film
Il primo film di Russell (L'ALTRA FACCIA DELL'AMORE, I DIAVOLI), che completa così la personalità del solo regista fuori dalle norme del cinema inglese contemporaneo (considerando Losey, con i suoi vari espatri, un caso a parte).

Meno unitario, più discontinuo delle due opere che seguiranno, WOMEN IN LOVE contiene pagine di una sottilità espressiva addirittura stupefacenti per un'opera prima. Come sempre nella fertilissima personalità di Russell, i temi trattati si moltiplicano e si intrecciano; ma una particolare rimane l'atmosfera del film, mentre vibrante è l'analisi di un individuo, o di più individui e di un momento storico. Condizioni psicologiche dei personaggi e situazioni economiche, ideologiche di un'epoca si fondono nella ricerca di un momento perfetto, durante il quale la verità dell'individuo dovrebbe spiegarsi. Il linguaggio del cineasta, che raramente nel cinema degli ultimi anni è stato così ricco, così denso di forme e di colori non sfocia, come sarebbe normale attendersi in un gioco compiaciuto di decorazioni fini a se stesse. Al contrario, è proprio attraverso la forma della propria visione che il cinema di Russell si significa.

Grazie ad un perfetto inserimento del personaggio in un determinato ambiente, genialmente ricreato, la vicenda dei film del regista inglese assume un carattere che la astrae dal contesto specifico in cui si svolge. Così come nei I DIAVOLI la figura del prete sconsacrato perde, poco a poco, il suo carattere episodico per assumere, inserita come è in una architettura di astratta violenza, quello di una riflessione sulla repressione e sull'oscuramento di ogni tempo, allo stesso modo, in DONNE IN AMORE, grazie al contrasto ambientale fra i due mondi sociali e psicologici rappresentati dalle due coppie, il film diventa un'analisi di una impossibilità di vivere che è propria di tutta la storia dell'uomo.

In questo senso tutta la parte inglese del film è esemplare: filmando dei personaggi e degli ambienti dalla estrema presenza sensuale, fisica, Russell riesce a filmare l'impossibile, e cioè quella tensione psicologica - puramente astratta e immateriale, quindi - che governa quelle immagini. Tensione che distruggerà l'apparenza di quelle immagini: a livello dei personaggi, che è quello del mondo rappresentato.

Per distruggere quella condizione sociale, e quella situazione psicologica Russel sente il bisogno di cambiare completamente l'ambiente. Ed è così che nell'ultimo terzo del film, quello del crollo delle apparenze, l'azione si sposta sulla neve, nelle Alpi svizzere alla ricerca di una dimensione opposta, neutra, priva di colori e di rilievi, in opposizione a quella estremamente pregna della campagna inglese. Anche se questo spostamento è giustificato, per le esigenze e anche per quelle logiche legate alle abitudini dei personaggi di quel mondo, qualcosa si rompe nell'unità del film. E subentra, accanto a quella nuova situazione di annientamento di valori, di distruzione di una falsa perfezione esistenziale che certamente desiderava il regista, una serie di annotazioni che possono apparire, perlomeno a noi che siamo "del posto", di convenzione se non proprio di folclore.

Tutto questo non intacca comunque il significato di un lavoro che, per la sapiente originalità e fertilità del processo che porta un'idea a farsi immagine, trova pochi eguali sugli schermi di questi anni.


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