PARTY GIRL è, come la stragrande maggioranza dei film americani fino a pochi anni fa, un'opera di commanda: una storia banale, dei mezzi banali (ricostruzione d'epoca inesistente, sfondi artificiali di paesaggi su trasparenze orribili). Persino delle sequenze (quella del ospedale in Svezia, ad esempio, e quelle a Venezia) che non sono evidentemente state girate da Ray, ma da un aiuto qualsiasi, e che sono di una bruttezza raggelante.
Eppure PARTY GIRL è un esempio quasi commovente di come, con l'aiuto dell'arte registica si possa arrivare a forzare il significato delle apparenze, a piegare, a dominare, a reinventare la realtà. Esattamente allo stesso modo con il quale una pennellata di Rembrandt o di Breughel può reinventare il soggetto più sgraziato.
Nel cinema di Ray questo avviene grazie all'arte sopraffina della decorazione (gli addobbi, i damaschi, la chincaglieria ricrea il mondo della Chicago del 30), dell'uso dei colori (trionfo delle tinte volgari, delle porpore e degli ori a sottolineare i fasti fasulli, oppure i colori che si attenuano nelle scene intime), nel gioco perfetto delle inquadrature che arrivano a sottolineare le pisicologie dei personaggi. E direzione d'attori poderosa: un Robert Taylor rinato, la sublime Cyd Charisse, allusiva nelle danze quanto incredibilmente concentrata nei primi piani.
Cinema dello sguardo, che sul filo di questo anticipa l'azione, guida lo spettatore nella interpretazione delle situazioni, nella comprensione delle psicologie. Una lezione ineguagliabile per poter leggere un film oltre l'aspetto primario, e del tutto relativo, del soggetto.