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ZERO DARK THIRTY Film con lo stesso punteggioFilm con lo stesso punteggioFilm con lo stesso punteggioFilm con lo stesso punteggio
  Stampa questa scheda Data della recensione: 11 febbraio 2013
 
di Kathryn Bigelow, con Jessica Chastain, Jason Clarke, Joel Edgerton, James Gandolfini (Stati Uniti, 2012)
 
Quanto è compatibile la lotta al terrorismo con i valori della democrazia? E in che misura è accettabile l'assuefazione alla morte che finisce per provocare; l'uso della barbarie per combattere la barbarie ? Ruotano attorno a questi interrogativi le polemiche che stanno accompagnando verso gli Oscar (5 nomination; compresa quella per il Miglior Film, già conquistato tre anni fa, e per la prima volta da una regista donna, con lo straordinario THE HURT LOCKER sugli artificieri in Iraq) l'ultima sensazione firmata Kathryn Bigelow. Non tanto incurante dei problemi morali, certo affrontati senza la volontà di scavarli a fondo, quanto coerente come pochi altri cineasti contemporanei al proprio approccio espressivo la regista imprime dalle primissime immagini di ZERO DARK THIRTY (nel frasario dei servizi segreti, l'ora in cui è destinato a scattare l'operazione che ha condotto all'eliminazione di Osama Bin Laden) la forza, e l'originalità del proprio calco espressivo.

Lo schermo è nero: ma la tensione, subito lancinante, proviene dai suoni, dalle urla, i pianti, le implorazioni, le ancora più strazianti rassicurazioni che provengono dai telefonini delle Torri Gemelle. Quando lo schermo finalmente si accende, sulla prima delle illuminazioni che ci aspettiamo da un film come questo, dieci anni sono trascorsi da quel 11 Settembre 2001: eccoci allora sullo sguardo turbato di una figura determinata ed esile, la magnifica Jessica Chastain che sosterrà con la sua presenza l'intera struttura della pellicola, l'agente della CIA catapultata dalle retrovie della professione agli avamposti nel Pakistan. Immediatamente sbattuta ( e con lei lo spettatore) con il suo blazer ancora stirato, la capigliatura fiammante ancora messa in piega, alla rappresentazione di uno dei mezzi privilegiati nella Grande Caccia, la tortura, condotta fino alle sue estreme conseguenze.

Maya non la gradisce, preferendole lo sfiancante, quasi burocratico itinerario deduttivo, ma sembra accettarne l'ineluttabilità: così, la stampa progressista, e certamente una parte degli spettatori è insorta. Ma la forza del cinema di Kathryn Bigelow mira a una sensibilizzazione che non è psicologica, ma sensoria: esattamente come in THE HURT LOCKER la qualità del suo sguardo non giudica, nemmeno "racconta", nel senso tradizionale della parola. Il dramma dei protagonisti, l'usura che nasce dalla loro ossessione alimenta la loro determinazione, permette una consuetudine a prima vista impossibile. Poiché la regista osserva, descrive, fa avanzare la progressione drammatica senza mai ricorrere all'aneddoto, a colpi di scena, agli abituali espedienti drammaturgici. Solo grazie a uno straordinario senso dell'istante presente, un modo tutto suo di dilatare i tempi, di parcellizzare le situazioni che le permette un'immediatezza da documentario nella resa della realtà. Una verità ottenuta però con la libertà offerta dalla finzione, grazie ad un'esigenza strutturale rara, un intervento chirurgico sul materiale a disposizione, il rigore assoluto della sceneggiatura (assieme al compagno giornalista Mark Boal), la lucidità nella scelta delle riprese e soprattutto del montaggio.

Una stasi in progressione. Per sfociare a quel finale del 2 maggio 2011, con l'irruzione ormai celebre ma priva di ogni trionfalismo nella villa-fortino non lontana da Islamabad, la sensualità dei suoni che testimoniano l'ambiente urbano circostante, i movimenti in soggettiva, quasi in tempo reale degli assalitori e l'interagire drammatico con quelli degli assaliti, la tensione straordinaria ottenuta per una conclusione che il mondo conosce da tempo. Potrà piacere o meno, ma è cinema in tutta la sua energia specifica.


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