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ZATOICHI
(ZATOICHI)
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  Stampa questa scheda Data della recensione: 4 maggio 2004
 
di Takeshi Kitano, conTakeshi Kitano, Tadanobu Asano, Michiyo Ogosu, Yui Natsukawa (Giappone, 2003)
 
Un modo di essere grandi consiste anche nel sapersi rinnovare. Dopo DOLLS, esempio austero di magistero visionario ispirato alle marionette del cinquecentesco teatro Bunraku, Takeshi Kitano affronta per la prima volta un mito del cinema giapponese, il film di samurai. Racconta di uno degli eroi più popolari di quella tradizione, il massaggiatore errante e cieco, che della propria infermità riesce a fare, ai confini del surreale, un'arma in più della propria spada già micidiale. Ma la lotta contro la solita banda di prepotenti che terrorizza il villaggio alla maniera de I SETTE SAMURAI, il regista di SONATINE e JUGATSU la idealizza in un modo clamoroso: sconfinando dalla violenta e virtuosistica rappresentazione che hanno reso celebre i suoi film di yakuzas dapprima verso i territori del burlesco e della farsa esilarante, quindi in quelli ancora più sfrontati ed inattesi dei ritmi di una sfrenata commedia musicale.

Sul filo di una maestria e di una eleganza formale fuori norma, l'itinerario espressivo di Kitano, pur nutrito da una cultura diversa, si allinea allora su quello del grande cinema postmoderno. ZATOICHI non si costruisce tanto su una vera e propria progressione drammatica di un racconto comunque risaputo, ma su un mosaico di momenti privilegiati (subito smitizzati dalla gag), una raccolta di gesti, di frammenti temporali, di rinvii della nostra memoria da utilizzare a fini diversi da quelli che conoscevamo. Se in KILL BILL ci si diletta nel musicare un duello mortale di arti marziali con una rumba gitana, già le prime immagini di ZATOICHI dovrebbero farci aprire gli occhi: l'eco delle vanghe dei contadini nei campi ha già assunto le cadenze del pop contemporaneo. Anche se nemmeno il più smaliziato degli spettatori potrebbe ancora immaginare che si finirà dalle parti di una scatenata WEST SIDE STORY. Come in Tarantino, è una nuova libertà, sfrontata ma feconda, poiché sorretta dalla qualità di un'inventiva disinibita, ad affiorare. Una libertà che non sconfina nell'anarchia; ma nell'esigenza di una nuova visione della morale, della società e della poesia.


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