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YOL
(YOL)
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  Stampa questa scheda Data della recensione: 3 febbraio 1983
 
di Yilmaz Guney e Serif Gören, con Tarik Akan, Necmettin Cobanoglu, Serif Sezer, Halil Ergün (Turchia - Svizzera, 1982)
 
A quasi un anno dal successo di Cannes (Palma d'Oro assieme a MISSING di Costa-Gavras) le circostanze eccezionali che hanno prodotto questo film sono ornai cosa nota. Eppure è impossibile farne astrazione. YOL, come il precedente SURU (Il gregge) premiato a Locarno qualche anno fa, è un film girato in prigione. Non su una prigione, ma da un uomo in prigione.

Prigioniero politico per sette anni in Turchia, Guney (che è uno scrittore, uno sceneggiatore) ha pensato i suoi film in prigione. Li ha immaginati nella propria mente: prima una storia intera, poi dei personaggi da inserire in questa storia, poi un ambiente nel quale inserire i suoi personaggi. E poi scena dopo scena, i movimenti della cinepresa, le angolazioni, le luci. E i dialoghi, il tono della recitazione.

Al contrario di quanto era successo con SURU, Guney ha potuto finire il suo film materialmente: durante le riprese di Yol, nel corso di una libera uscita del tutto simile a quella vissuta dai protagonisti del film, lo scrittore è fuggito. All'estero, a Zurigo, dove ha potuto montare il film che è stato prodotto infatti in Svizzera, dalla Cactus film.

Ora, tutto questo non costituisce soltanto uno straordinario fatto umano: ma si riflette, condizionandola positivamente ma anche negativamente, sull'opera stessa. Positivamente: Yol, che significa la via, il cammino, la meta, è la storia dl cinque prigionieri politici ai quali viene accordata una settimana di libera uscita. Ma non è tanto il destino individuale che seguiamo, quanto quello collettivo. Sullo sfondo degli itinerari dei cinque è il destino della Turchia di oggi che si fa luce. E di ogni paese dominato dalla violenza e dalla privazione della libertà.

Le vicende incrociate di YOL ci dicono che è impossibile, in un paese governato dal fascismo, ritrovare una terra, una famiglia, un'identità. Il fascismo è nella serie interminabile delle perquisizioni, delle umiliazioni che gli individui devono patire. Ma ancor maggiormente, è nel suo potere di disintegrazione dei legami che lo univano alla vita e la giustificavano.

Questa resa corale del film riesce ingigantita proprio dal modo particolare con il quale il film è nato. Proprio perché ogni scena, ogni dettaglio, ogni ombra sullo sfondo e stato meditato e sofferto a lungo da un uomo solo con se stesso e la propria sofferenza, proprio per questo YOL ci offre un messaggio di grande sofferenza, di amara constatazione e di violenta rivolta. E proprio per questo sono sempre le scene di massa le più efficaci: anche se il film non possiede quella progressione lirica che organizzava alla perfezione il discorso de Il gregge, anche se l'intreccio dei diversi destini dei protagonisti finisce col diminuire l'impatto emotivo che avrebbe avuto l'imposizione drammatica di un unico personaggio, il paesaggio desolato della realtà turca assume un'autenticità indiscutibile. E la sincerità, quasi documentarista, del discorso di Yol induce a dimenticare i limiti del film.

I quali, bisogna pur dirlo, esistono. E sono anch'essi insiti nel modo col quale è nato il film. Un film, abbiamo visto, che Guney ha fatto fare a un altro. Un film delegato, dettato, suggerito. Attraverso lettere, disegni, visite alla prigione, addirittura scene mimate agli attori nel corso di brevi incontri. Ora, tutto questo è altrettanto presente nel film che la sincerità, la sofferenza che abbiamo descritta. Un fatto è certo: la presenza di un regista al momento nel quale si registra una scena sulla pellicola, il suo occhio attraverso il mirino della camera rimane un fatto insostituibile. Per quanto accurata una messa in scena possa esser fatta a distanza (e chi, più di un prigioniero, ha del tempo a disposizione per pensare a tutti i dettagli immaginabili?) essa non può prescindere dall'intuizione, dal momento magico della creazione, dettato dalla presenza dell'autore.

Sincere e drammatiche nella loro messa in situazione, le scene di Yol denunciano costantemente il loro carattere di traslazione. Si sente, cioè che ogni sequenza è stata costruita a priori, inquadrata a priori. Che ogni dialogo, ogni gesto degli attori è stato fissato in precedenza sulla carta. E semplicemente ricopiato più tardi, da un seppur valoroso e fedele allievo. Così, la tanto celebrata sequenza della camminata sulla neve finisce con l'essere uno dei momenti più retorici del film, tanto appartiene alla memoria letteraria e anche cinematografica dell'autore come dello spettatore.

YOL non e quindi un grande film: grande è il modo grazie al quale ha potuto esser fatto. Grande è ugualmente il suo potere di denuncia. E la nostra consolazione nel sapere che, anche nelle situazioni di più terribile coercizione, questa denuncia, e questa aspirazione alla libertà, riesce egualmente a farsi strada.


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