Non eravamo stati teneri con LA GRANDE BELLEZZA: troppo Fellini sbandierato, quel doppio filo imprudente con LA DOLCE VITA, la stessa Roma, che sappiamo quanto bella, esausta e degradata, persino il grande Servillo incautamente accostato a quel sommo Marcello. A sorpresa, dopo un Oscar deviante, malgrado la tradizionale ostilità che gli riserva Cannes e l'ambiguità di molta critica italiana, YOUTH riporta Paolo Sorrentino ai livelli che il suo indubbio strapotere tecnico/estetico dovrebbe sempre permettergli: il manierismo sapiente ma non enfatico che gli conoscevamo.
Forse, grazie a una sceneggiatura che è ritornato a scrivere da solo, lontano dai compiacimenti della collaborazione con Umberto Contarello nei suoi due film precedenti. Reclutando la divina ironia, ma anche la profonda umanità di due grandi vecchi di diversa cultura anglosassone e memoria cinematografica come Michael Caine e Harvey Keitel, chiudendosi nello scrigno favoloso delle cime che attorniano Davos e nella lussuosa cariatide di uno spa di stralusso, il barocco talvolta strabordante di Sorrentino ha trovato (a soli 44 anni) tutta la malinconia della riflessione matura. Ma pure tutto l'humour del ritratto paradossale e l'esaltazione che offre la fuga nel fantastico. Tutti i vizietti che qualcuno troverà risaputi le gati a quell'ambiente, ma anche l'amore, senescente o meno, la paternità, la relatività del tempo.
Ad immagine di quel cannocchiale preso alla rovescia che, piuttosto che avvicinarci alla conoscenza di più precisi dettagli, allontana la visione: ma amplificandone la comprensione generale. Cosi, Caine racconta di Stravinski, Keitel incontra una Jane Fonda maschreta da diva decadente, mentre Sorrentino organizza la follia bucolica di un concerto di mucche sparse per i prati. YOUTH è questo e altro, e non è poco.