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WATERWORLD
(WATERWORLD)
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  Stampa questa scheda Data della recensione: 3 ottobre 1995
 
di Kevin Reynolds, con Kevin Costner, Dennis Hopper, Jeanne Tripplehorn (Stati Uniti, 1995)
 
Conosciamo, perché a questi livelli promozionali anche le notizie più sciagurate fanno ormai brodo, tutte le disavventure dell'ultimo Reynolds - Costner: un budget così spropositato da far inorridire i pur disinibiti finanziatori di Hollywood, quelli abituati a battere ogni sei mesi i propri record; dei sorpassi durante le riprese così imponenti da obbligare i produttori a far chiudere baracca e burattini. Poi, come non bastasse per un'opera che dovrebbe più o meno quadruplicare gli incassi di un JURASSIC PARK per rientrare nei costi, delle critiche assai tiepide da parte della critica americana.

Ebbene, anche se ciò non porterà ahimè la minima paglia al fienile dei nostri due Kevin, diciamo subito che: a) i soldi spesi per WATERWORLD si vedono tutti; b) il film è tutt'altro che da buttare. Non è l'acqua - anche questo è ormai arcinoto- che manca in WATERWORLD: in seguito alla nostra trascuratezza le calotte polari si sono ormai sciolte, gli oceani sono dilagati, agli uomini non rimane che sopravvivere riciclando la propria orina su qualche vascello obsoleto, o tentare di difendersi dalle scorribande degli ultimi a morire -come sempre i delinquenti su degli strani atolli fortificati alla meno peggio. Per un pugno del buon vecchio, odoroso terriccio si è infatti prontissimi a scannarsi a vicenda. Mentre per i pochi sopravvissuti, la terra ferma (ormai chiamata Dryland) è un mito del quale si favoleggia, un miraggio che giustifica qualsiasi mascalzonata. Figuriamoci quelle inventate dal cattivissimo Dennis Hopper, e dai suoi ecologicamente dannati Smokers per impossessarsi della mappa dell'itinerario tatuata sulla pelle della piccola protetta dal bel Kevin. L'aria che tira, insomma, è un po' quella della celebre serie dei MADMAX: un western da passato-prossimo fantascientifico, la rincorsa dei banditi ormai barbari al gruppetto di sopravvissuti che dovrebbe garantire la preservazione del barlume di civiltà. Costumi, armi, marchingegni da archeologia industriale, futurismo sgangherato di un Giulio Verne rivisitato da una rivista di fumetti in crisi di valori.

Se in tanta dovizia di orpelli George Miller si abbandonava al piacere dell'iperrealismo più sfrenato esasperando giocosamente ogni elemento espressivo a propria disposizione, Kevin Costner -lo sappiamo dai tempi di BALLI COI LUPI- aspira ad altre dimensioni; e così dev'essere per il suo collaboratore Kevin Reynolds, eterna promessa dopo l'esordio promettente di FANDANGO e di ANIMALE DA GUERRA.

Proprio come l'eroe di BALLA COI LUPI, allora, quello di WATERWORLD, il mutante Mariner ormai mezzo uomo e mezzo pesce provvisto di branchie che gli permettono di sfuggire ai malvagi nelle profondità marine, aspirerà all'eterno sogno americano, ma rivisitato alla Costner: deciso, come il protagonista del "Deserto dei tartari" a visitare i confini estremi della terra e della civiltà, quella Nuova Frontiera che, se non è più quella dei pionieri di Ford egualmente ci attira ai limiti sempre vertiginosi della conoscenza.

Come nel film precedente, per intraprendere questo viaggio altrettanto mentale che fisico, l'autore deve far piazza pulita di tutto ciò che ha occupato la nostra memoria, a cominciare da quella cinematografica. Allora, il fortino semi distrutto, i recinti che una volta contenevano del bestiame, i vaghi resti di una miniera; tutte vestigia di un'epoca (e di un modo di far cinema) sepolti nella nostra cultura. Qui, i resti di ciò che una volta doveva essere un porto, con i suoi ormeggi, i bar, gli spacci; e tutta la chincaglieria di una civiltà scomparsa che il navigatore-mercante si porta nella stiva del suo fantascientifico quanto traballante trimarano.

A partire da questa intuizione del ricominciare da zero Costner costruiva in BALLA COI LUPI un semplice, progressivo ed ammirevole viaggio nella conoscenza; con il rigore del documentario etnografico, la semplicità e la generosità con non disdegnava di sconfinare coraggiosamente nel fantastico. Tutto ciò gli funziona assai meno in WATERWORLD, e non soltanto perché si riferisce ai fumetti piuttosto che alla sopravvivenza delle minoranze etniche: ma forse perché distratto, come succede in questi casi, dall'invadenza delle preoccupazioni budgetarie. Oppure addirittura obbligato - come insinuano i maligni - ad arrangiarsi di concludere le sue storie con il materiale a disposizione al momento dell'interruzione.

Fatto sta che a WATERWORLD manca quell'elemento portante che strutturava la semplice progressione del primo lungometraggio di Costner: la progressione di una vicenda, l'approfondimento di una psicologia, anche solo l'unità di tono di una pellicola che inizia e si conclude alla ricerca del delirio visionario, per accontentarsi, in tutta la parte centrale, delle simpatiche e risapute mondanità della commedia sentimentale. Genere: guarda che lui in fondo è un bonaccione, e finiranno per volersi tutti bene.

Rimane il fatto che una buona parte del film è non soltanto divertente e dinamica: ma rivela costantemente l'esistenza di ciò che costituisce l'anima imprescindibile di ogni film, l'esigenza, la qualità di uno sguardo.


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