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SACRIFICIO
(OFFRET)
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  Stampa questa scheda Data della recensione: 10 settembre 1987
 
di Andrej Tarkovski, con Erland Josephson, Susan Fleetwood, Valerie Mairesse (Svezia - Unione Sovietica, 1986)
 

In un'isola, aiutato dal figlioletto, Alessandro pianta un albero secco. Mentre la famiglia passa l'estate in una casa vicino al mare, un frastuono di aeroplani annuncia una minaccia incombente. E la televisione, in vista di una catastrofe, raccomanda di non uscire più di casa. Alessandro, dopo una preghiera, decide di dar fuoco alla casa, e di tacere per sempre. Al cospetto della famiglia scandalizzata viene prelevato da un'autoambulanza: e il bimbo torna ad innaffiare l'albero morto. Dal penultimo festival di Cannes, dove SACRIFICIO  fu sciaguratamente negato della Palma d'Oro scrivevamo che c'è cinema e cinema. C'è cinema, cioè, che trasforma in non-cinema tutto il resto, emarginandolo ad una sottospecie di consumo. Delle opere che, prima di essere un film costituiscono un frammento di personalità, una confessione, una lacerazione rivelatrice. E che per questo loro aspetto rivelatore si caricano di un'emozione folgorante.

Non è soltanto per il fatto di sapere che, mentre SACRIFICIO passava a Cannes il grande regista russo stava morendo (e la giuria perdeva l'ultima occasione per iscrivere il nome di uno dei cineasti più determinanti del dopoguerra) che l'opera apparve a tutti come straordinaria. Ma è perché questo racconto, al tempo stesso di grandezza cosmica ma anche di umanissima umiltà, possiede la saggezza, l'equilibrio sereno di un testamento spirituale.

SACRIFICIO rimarrà (assieme ad ANDREI ROUBLOV e, forse STALKER) come il più grande dei capolavori di un regista che ha posto la sua opera a tali livelli di esclusività intellettuale da arrischiare l'emarginazione intellettuale. Ma questa sua ultima fatica rimarrà sicuramente nella memoria come la più vicina alla nostra natura, alla nostra miseria, alla nostra condizione umana.

Il film parla di un uomo che si sacrifica per qualcun altro, per evitare qualcosa (perché un film è pur fatto di immagini, ed occorre materializzare i pensieri) che assomiglia al soffio mortale di un cataclisma nucleare: ma, più che al futuro, è un film rivolto al passato. O meglio: un film che, contraddicendo le idee attuali, ci dice che il futuro è ormai nel nostro passato. Che, per salvarci dobbiamo compiere qualcosa d'inconcepibile per la nostra epoca: annullarci, dimenticare noi stessi. SACRIFICIO è un film diretto con disperazione. Ma, forse proprio per questo, con insospettabili (per un regista considerato austero) tocchi di grottesco. Un'apertura al domani, paradossale in un'opera apparentemente disperata, che è frutto della lucidità: come quel bambino che, nella meravigliosa sequenza finale, riacquista la parola. Scomparso il padre, egli torna ai piedi di quell'albero secco che avevano eretto assieme. Anche se l'albero è morto, il bimbo continua ad innaffiarlo: perché, ci dice Tarkovski, ripetere la medesima azione, anche priva di apparente conseguenza, conduce ad un risultato.

L'albero morto di Tarkovski, come ci si poteva attendere, non è ancora fiorito al termine de Il sacrificio: ma la sua illuminante lezione di umiltà, avvicinata alla vertigine offerta dalla maestria espressiva, rimarrà fra le memorie dell'uomo: "La domanda posta dal mio film è quella sull'assenza, nella nostra cultura, di uno spazio riservato alla spiritualità. L'uomo nella nostra società è stato amputato della propria dimensione spirituale. Ne soffre, senza sapere di cosa stia soffrendo". Oggi, ad un anno dalla scomparsa del regista, cominciamo ad intravedere come tutta la sua opera si costruisca su quelle parole.


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