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SALVATE IL SOLDATO RYAN
(SAVING PRIVATE RYAN)
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  Stampa questa scheda Data della recensione: 15 novembre 1998
 
di Steven Speilberg, con Tom Hanks, Matt Damon (Stati Uniti, 1998)
 
La rappresentazione della morte è la cosa più riuscita di questo film troppo chiacchierato. Nell'ormai celebrato prologo: lo sbarco di Normandia, il massacro, gli uomini allo sbaraglio, la cinepresa a livello d'uomo, il sangue, le lacrime, la sabbia, la schiuma del mare che schizzano sull'obiettivo, i suoni (soprattutto i suoni, una sinfonia tecnologica d'incredibile sapienza, all'interno della quale uno specialista distinguerà le caratteristiche di ogni calibro, di ogni obice...), l'immersione totale, insomma. Ma rappresentazione della morte, pure, nelle molte agonie che seguono: mai insistita, mai spettacolarizzata, sempre seguita con un'intimità, una partecipazione che rimette - come dicono da quelle parti- la chiesa al centro del villaggio: la morte che è la sola, vera protagonista della guerra. La morte, che non è mai un bel vedere; e nemmeno dev'essere bella da rappresentare.

Come "film di guerra", sono meno certo che SOLDATO RYAN sia, come dicono gli americani, "il più grande della storia". Non solo perché innova per tre ore assai meno che in quei primi venti minuti. Riprendendo, al contrario, tutti gli schemi, talora i vizi degli schemi del genere, anche se è vero che sono i più grandi: quelli degli Hawks, dei Wellman, del più grande di tutti, THE GREAT RED BATTLE, di Dam Fuller. Ma perché, specie se confrontato ai grande film antimilitaristi di Kubrick, di Coppola, di Malick, finisce per flirtare con l'ambiguità. Certo, Spielberg, ha voluto raccontare una volta di più una di quelle fiabe che da sempre predilige, nelle quali l'uomo qualunque si trasforma in Eroe, rendere un omaggio a coloro che ebbero il coraggio di decidere ciò che sempre azzardato decidere: compiere la guerra "giusta", ucciderne uno, cento, mille per evitare che le vittime siano cento,mille, un milione di più. Ma è un calcolo atroce, una contabilità sempre contestabile. E, nella sua indubbia buona fede, Spielberg non riesce ad evitarne del tutto i rischi: con tutti i buoni da una parte, ed i cattivi dall'altra, l'inevitabile arrivo dei nostri. Una scrittura della sceneggiatura che finisce per imporre ad ogni costo la propria logica, una morale che arrischia ad ogni istante di entrare in contraddizione con quella accorata rappresentazione di una morte che andrebbe - prima di ogni altra considerazione - aborrita e rifiutata.


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