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RAGAZZI FUORI Film con lo stesso punteggioFilm con lo stesso punteggioFilm con lo stesso punteggioFilm con lo stesso punteggio
  Stampa questa scheda Data della recensione: 27 settembre 1990
 
di Marco Risi, con Francesco Benigno, Alessandro Di Sanzio (Italia, 1989)
Anche i film hanno, come diceva il titolo di un film di Francesco Rosi su dei toreri che assomigliavano tanto ai picciotti che stanno a cuore anche a Marco Risi, il loro momento della verità.

Quello di RAGAZZI FUORI si situa al termine, anzi, dopo la parola fine. Scorrono allora sullo schermo le fotografie, le schede biografiche commentate in prima persona, di ognuno degli attori che ha interpretato i personaggi del film. Sono voci fresche, vere e spontanee che raccontano tutte la medesima storia. Ho sedici anni, diciott'anni, ventidue anni: ho fatto questi studi, vissuto d'espedienti, subito la legge, cercato lavoro, avuto la possibilità - che certo non si ripeterà - di partecipare ai due film di Risi. Nel frattempo (aggiunge qualcuno) mi sono sposato. Ad un mio amico di sedici anni hanno sparato un colpo di postola nella nuca; mentre rubava un'autoradio. Sono disoccupato.

L'atto d'accusa - terribile - nei confronti di una società che abbandona a sé stessi, con un cinismo talora perverso i suoi figli più giovani è tutto contenuto in questo espediente figurativo , un po' elementare che conclude la pellicola. È un espediente che dice tutto il bene che c'è da dire su RAGAZZI FUORI: la voglia di una denuncia che non sia solamente intellettuale ed astratta, ma che accompagni - pure politicamente - il destino di questi personaggi autentici anche dopo che la finzione di un film si sia spenta. L'affetto, l'intimità a tratti anche curiosa (in questo senso se ne vorrebbe sapere di più, delle ragioni che legano così drammaticamente un autore venuto dal Nord ai ragazzotti palermitani), quel modo d'incollarsi con la cinepresa ad una realtà immutabile, con una partecipazione così sincera da sembrare quasi ostinata.

Al tempo stesso, i cartelli biografici di RAGAZZI FUORI confermano crudelmente quanto le immagini che li precedono - tutte le immagini del film quindi, tutto quanto l'autore ha saputo inventare - suggerivano d'impotenza e d'ambiguità. Quasi che l'impotenza, e l'ambiguità di una situazione sociopolitica si fosse trasmessa alla mano di chi doveva denunciarla. In una sorta di ulteriore condizionamento, questa volta d'ordine espressivo.

MERY PER SEMPRE, che per la prima volta ci metteva in contatto con i personaggi del carcere minorile di Malaspina aveva avuto il successo di pubblico e di critica che sappiamo perché sapeva riprendere la grande lezione del neorealismo: fare della cronaca asciutta, priva di esasperazioni stilistiche e di sottolineature drammaturgiche. E lasciare così che il rigore espressivo di questa visione si traducesse in rigore morale.

RAGAZZI FUORI , come dice il titolo, riprende gli stessi personaggi di vita, interpretati da giovani dalle vite tremendamente simili, una volta uscite dal riformatorio. Per poco: perché per Mery il travestito c'è dietro l'angolo un crudele processo per una pendenza che lo riporta nel buco disperato della prigione. Per il simpatico King Kong, che riesce finalmente a farsi assumere come cameriere, il colpo di pistola alla nuca, per aver subito la tentazione di rubare un'autoradio. Per Antonio, il bravo padre di famiglia che sbarca il lunario vendendo patate per la strada, nuovamente la guardina poiché non ha la licenza. E così via: in un'inesorabile parabola negativa, un itinerario ineluttabile verso la disperazione e la perdizione che giudici, poliziotti e gente che sta semplicemente a guardare, sembra fare a gara per infliggere ai poveracci.

Ma non è tanto lo schematismo di una sceneggiatura così perentoria da sembrare dimostrativa a togliere al film - quasi paradossalmente - tutto quanto la rabbia e l'affetto del regista avevano indossato ai personaggi ed alla situazione. Ma, come sempre, lo stile.

Proprio al contrario di MERY, qui la drammatizzazione, per non dire la spettacolarizzazione delle immagini finisce per uccidere la passione, il documento, la realtà. Sul filo della musica da giallo-spaghetti costantemente inflittaci da Risi, la verità dello sguardo su un ambiente che aveva caratterizzato il film precedente, il rigore realistico di una testimonianza severa si perde in un gioco di chiaroscuri inutilmente effettistici, in una luce verdognola da telefilm di prima serata. Il tutto per commuovere e indignare ad ogni costo: come non fossero bastati loro, i personaggi presi dal vero, ed il loro ambiente; che da solo li avrebbe significati.


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