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RADIO DAYS
(RADIO DAYS)
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  Stampa questa scheda Data della recensione: 4 giugno 1987
 
di Woody Allen, con Mia Farrow, Seth Green, Dianne Wiest, Dianne Keaton, Danny Aiello, Jeff Daniels (Stati Uniti, 1987)
 
Ci si abitua anche al caviale: viziati, come siamo a Cannes, dal solito Woody Allen d'annata, cominciamo a fare i difficili. Eppure, che di pietanza sopraffina si tratti, non ci sono dubbi. Una volta si diceva: Woody Allen fa ridere di meno, ma impara a fare il regista. Oggi (dopo BROADWAY DANNY ROSE, THE PURPLE ROSE OF CAIRO, HANNAH E LE SUE SORELLE si può dire che il grande comico (ed ormai grande cineasta) americano sembra meno occupato a fare delle cronache del presente. Ma piuttosto delle sottili, leggermente malinconiche, rievocazioni del passato. Allen, anche in questo se occorresse, dimostra di sentire l'aria dei tempi, e di allinearsi con i grandi maestri del cinema: i quali, praticamente tutti, sembrano portati ai ripensamenti. Sulla loro vita, (non sono più giovanissimi, Wenders ha 42 anni, Allen 52, Kubrick 60, Fellini 67), sulla loro carriera, sul loro mestiere. Oltre all'anagrafe, hanno due punti in comune: quello di essere degli artisti al sommo della gloria, in grado di creare delle opere-bilancio, delle conclusioni estetiche e filosofiche. E di operare all'interno di un linguaggio, quello cinematografico, che si dice morente, o perlomeno seriamente minacciato nella propria sopravvivenza. Ecco quindi che queste meditazioni si fanno al tempo stesso sulla propria esistenza; e sulla forma, sul "modo" che si è usato per trascrivere in arte la propria vita. Hanno l'interesse, ed il fascino, delle confessioni private e delle dissertazioni estetiche.

RADIO DAYS si situa esattamente in questa posizione: come dice il titolo, gli anni della radio. Che sono il pretesto per ricordare quelli di gioventù, quelli della (sua famiglia) ebrea nuovayorchese. Da PRENDI I SOLDI E SCAPPA, Allen si era occupato spesso di tutto ciò: talora con maggior continuità comica, talaltra con un'"idea forte" (i personaggi che uscivano dallo schermo in La rosa purpurea del Cairo), con un personaggio straordinario (BROADWAY DANNY ROSE) o una struttura drammatica particolarmente portante (Hannah e le sue sorelle).

La rievocazione di RADIO DAYS può apparire minore in questo senso; ma è nella cura dei dettagli, delle scenografie, dei costumi, dei colori e naturalmente delle musiche (che costituiscono il filo conduttore) che RADIO DAYS supera tutto quanto Allen abbia fatto in precedenza. Che dipinga l'interno borghese di una famiglia di Brooklyn o quello sofisticato di un loft di Manhattan, un dancing alla moda come quelle della commedia glamour della Paramount o un marciapiede della Quinta Strada, RADIO DAYS è di una precisione e di una partecipazione così affettuosa da richiedere un paio di visionamenti per apprezzare il tutto.

I personaggi (particolarmente quelli femminili) entrano con infinita facilità in questi ambienti: la stessa dimensione ebraica, liberata da ogni sofferenza, non è più un semplice pretesto comico o biografico. Ma si erge ormai a creare un vero e proprio universo poetico, com'erano quelli di Chaplin, di Lubitsch o di Capra. In questo senso RADIO DAYS non è forse un'opera minore: ma il raggiungimento di una maestria espressiva che si situa all'opposto della parabola iniziata con maldestra comicità, ai tempi di PRENDI I SOLDI E SCAPPA e BANANAS. La lezione di Allen è impagabile: poiché, oltre a tutto, si svolge nella discrezione assoluta, nel segno del pudore e del ritegno economico, promozionale, divistico. E con una frequenza sbalorditiva. In un'arte sfacciata com'è quella cinematografica, l'intelligenza e la fantasia dell'omino di Brooklyn rappresentano un miracolo costantemente rinnovato.


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