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RACCONTO DI PRIMAVERA
(CONTE DE PRINTEMPS)
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  Stampa questa scheda Data della recensione: 9 settembre 1990
 
di Eric Rohmer, con Anne Teyssedre, Hugues Quester, Florence Darel (Francia, 1990)
Dopo 40 anni di cinema, Eric Rohmer inizia un nuovo di quei cicli (i Racconti Morali, le Commedie e Proverbi) nei quali egli ama organizzare i propri film. Organizzazione, raziocinio, perfezione classica. E spontanea naturalezza : il miracolo del cinema rohmeriano sta proprio nel riuscire a fondere questi aspetti così difficilmente conciliabili.

RACCONTO DI PRIMAVERA è in questo senso perfetto: l'armonia della costruzione, l'architettura della scrittura si sposano ad una grazia istintiva dell'osservazione, ad una fluida intimità con i personaggi e la progressione del racconto come solo succede nei capolavori. A questo punto, allora, non importa più di tanto se la nuova serie s'intitola alle quattro stagioni: dopo tutto, il cinema così vicino all'ambiente di Rohmer, avrebbe già potuto riferirsi all'estate di LA COLLECTIONNEUSE o di PAULINE AL LA PLAGE, all'inverno di MA NUIT CHEZ MAUDE, alla primavera di LE GENOU DE CLAIRE. Così come non importa più tanto la storia del film. Una giovane professoressa di filosofia incontra (casualmente, come sempre nell'astrazione - così vicina alla vita - degli intrecci rohmeriani) una diciottenne: questa cerca di buttarla nelle braccia di suo padre, ma i capricci del destino, della finzione favolistica vorranno diversamente.

Le piccole bugie, gli equivoci, le svolte umili anche se paradossali del quotidiano, sono il vero componente delle piccole-grandi storie del cinema di Rohmer: un cinema scandito dalla parola, dal dialogo, di un autore che più di ogni altro "preferisce mostrare della gente intenta a parlare di qualcosa". Così succede anche in RACCONTO DI PRIMAVERA, con la maestria di sempre. Ma, più ancora della meravigliosa, abituale scansione della parola è la facilità, l'armonia dell'immagine a fare di questo film uno dei più sereni, dei più compiuti del regista. Quasi che la recitazione incredibilmente fluida degli attori, il succedersi quasi disincantato degli infimi avvenimenti, la partecipazione puntuale degli ambienti, dei colori o della musica avvenisse nella gioiosa celebrazione filmica di un incantato settantenne.

Preceduto da una specie di prologo muto, il film è costantemente sorretto dall'ambiente. Sono porte che si aprono su degli spazi (degli appartamenti, delle stanze , delle strade, dei giardini): e questi spazi non solo determinano l'azione, ma la precedono. La trascinano in quell'ordine (o quel disordine) che finisce per assumere un significato morale. L'intimità, l'introspezione portentosa del cinema di Rohmer nasce dal rigore formale e morale dell'autore: ma cresce poeticamente, si fa malizioso e disincantato in una spontaneità che è tutto fuorché moralistica.

La preziosa bellezza del film nasce dalla grazia tremendamente facile con la quale egli s'attacca, quasi sensualmente, ai personaggi. E dalla disciplina della propria intelligenza: quando le due protagoniste giungono in riva alla Senna, il fiume è solo intravisto tra due case. Un altro cineasta avrebbe panoramicato sul paesaggio, per aprirsi al lirismo, agli spazi ampi e naturali che si offrono a due personaggi che abbandonano la costrizione cittadina. Rohmer no: ci fa comprendere che il fiume è li accanto, ma siamo già nel giardino, fra quattro mura, in un contenitore che fa seguito ad altri contenitori, perfettamente aderenti a quanto si svolge all'interno degli individui.

Più puritano di Bresson, più adolescente di quando firmava LE SIGNE DU LION, Rohmer crea il cinema più spontaneamente vicino alla vita e, al tempo stesso, più razionalmente interiorizzato che si veda sugli schermi. Un'impossibile alchimia , permessa soltanto all'artista.


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