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RAGIONE E SENTIMENTO
(SENSE AND SENSIBILITY)
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  Stampa questa scheda Data della recensione: 28 marzo 1996
 
di Ang Lee, con Emma Thompson, Hugh Grant, Kate Winslet, Alan Rickman (Gran Bretagna, 1995)
 
Vedersi un film come questo nella versione doppiata in italiano è come bersi un espresso decaffeinato: passano il tempo a dirvi che è proprio come quello normale, ma avete già dimenticato com'era l'effetto di quello originale? E questo perché RAGIONE E SENTIMENTO fa parte di quella categoria consacrata come appartenente alla "gloriosa tradizione della recitazione inglese". Verissimo: anche se qui si spazia dalle sue vette (l'ammirevole sensibilità di Emma Thompson, la giovane Kate Winslet, la straordinaria godibilità dei ruoli secondari) ai suoi abissi (l'esibizione disastrosa di Hugh Grant, impacciato bambolotto dalle insopportabili mossette, costantemente sopra le righe), resta un delitto intaccarne non solo la parola e la dizione, ma pure soltanto l'intonazione.

Fatta quella tara, la versione in cinema del primo dei romanzi di Jane Austen (1811) rimane comunque un bell'esempio di cosa si lastrica con le migliori intenzioni. A cominciare da quelle della brava Emma Thompson. Che ha fortemente voluto il film - tanto da firmarne la logica e stringata sceneggiatura -, ripulito di molti personaggi e situazioni la preziosa costruzione letteraria, concentrato saggiamente il tutto su quella "ragione e sentimento" che governa le due sorelle protagoniste. La violenza impulsiva e sentimentale di Marianne (la più giovane delle due sorelle diseredate, in nome di quella legge che voleva tutta l'eredità nelle mani dei figli maschi) ed il raziocinio, la riflessione che guida (e finirà per premiare) Elinor.

SENSE AND SENSIBILITY traduce allora, ed appunto, in termini romanzati il momento sociale e storico di tutta un'epoca: la transizione dagli umori neoclassici a quelli pre-romantici. La storia dei piccoli che traduce quella dei grandi: E dietro l'intrigo più o meno divertito ed elegante di come accasare le due sorelle ridotte male dall'egoismo di chi stava attorno, e dall'ingiustizia delle leggi scritte dai maschi, non si fatica a scoprire ben altro. Tutta la ferocia di un cerimoniale che aveva il coraggio di definirsi di buone maniere, l'umiliazione di una condizione femminile totalmente dipendente, l'ipocrisia di una società di sopraffazione costruita sulla presunta impermeabilità del semplice galateo.

Ma come non scegliere, allora, quando si è animati delle migliori intenzioni, un regista come Ang Lee, il taiwanese di gusto e di successo autore di BANCHETTO DI NOZZE e di AGRO-DOLCE, Pittore di donne e di famiglie, di rituali che finiscono per trasformarsi in rivelatori di stati d'animo e condizionamenti storici?

Risultato di un'alchimia dal curioso per non dir perverso internazionalismo, il povero Ang Lee se la cava anche onestamente: dirige con gusto personaggi ed ambienti, vivacizza avvenimenti e sottintende sentimenti. Ma, appunto, solo con gusto: quello che gli fa mettere in scena i personaggi cosi bene assortiti con la tinta delle tappezzerie, le maioliche di Wedgwood con le pupille delle signore all'ora del tè, il taglio delizioso delle colline del Devonshire lungo il quale far correre i destrieri delle passioni scatenate.

Una calligrafia, non certo uno stile: ciò che manca al film è la forza di una visione, di una interpretazione estetica che riesca ad organizzare, a suffragare i fatti. Qualcosa in più della scelta "classica" di un paesaggio, dello scorcio intenso di un prato a inglese, della cronaca accurata delle mossette mondane.

Tutto ciò che separa il grande cinema dal telefilm di lusso, BARRY LYNDON dalla letteratura per signorine. Per non ricadere proprio in quello "charme" dal quale Jane Austin ci esortava di diffidare.


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