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PARIS, TEXAS Film con lo stesso punteggioFilm con lo stesso punteggioFilm con lo stesso punteggioFilm con lo stesso punteggio
  Stampa questa scheda Data della recensione: 17 gennaio 1985
 
di Wim Wenders con Harry Dean Stanton, Hunter Carson, Nastassia Kinski, Aurore Clément (Stati Uniti, 1984)
 
Rivedere a quasi un anno di distanza il film che ha messo tutti d'accordo all'ultimo festival di Cannes, l'opera probabilmente più apprezzata in assoluto, e sicuramente più commentata dell'anno cinematografico 1984 è al tempo stesso comodo (poiché viene facile tentare una somma di riflessioni) quanto irritante (poiché si ha l'impressione che tutto sia stato detto, e che lo spazio è comunque insufficiente per riprendere tutti i temi).

Wenders, come Godard, o Antonioni, o Altman, è un regista "moderno". Uno dei più grandi. Qui ha filmato una storia elementare, di un padre che riconsegna il figliolo ad una madre separata. E, in questo senso l'unanimità del consenso potrebbe anche apparire sospetta. I buoni sentimenti e una storia finalmente comprensibile; più uno stile che accontenta i cinefili. Visto cosi, PARIS, TEXAS non regge a lungo: oltretutto, in termini puramente aneddotici, si presterebbe a facili ironie. Come quella di essere la storia di un irresponsabile: che si finge smemorato, dopo aver abbandonato la famiglia per quattro anni, toglie il figliolo alla famiglia del fratello (in seno alla quale il bimbo aveva trovato nel frattempo un equilibrio perfetto). Il tutto per riportarlo sulle strade, riconsegnarlo alla moglie che lavora in uno peepshow e quindi è una specie di puttana, e scomparire nuovamente alla fine avendo concluso che con la moglie non poteva rimanere. Per non essere visto a questo modo (illustrazione pseudo-moderna di una storia e di una morale classica) PARIS, TEXAS, come ogni altra opera di Wenders o di tutto il cinema di oggi che conta, va vista con un occhio moderno, appunto. Nel buon senso della parola. Che tenga conto di quanto ci hanno insegnato, ormai da generazioni, ad esempio i pittori. Passando dalla rappresentazione di una storia alla sua contemplazione, gli impressionisti, poi Cézanne, per semplificare, trovarono grazie a questa contemplazione della realtà, un nuovo contatto con il mondo, una nuova verità. La ricerca di una storia, la difficoltà o l'impossibilità di trovare una storia (che costituisce il tema di LO STATO DELLE COSE e tocca tutto il cinema precedente di Wenders) non è altro che questo aspetto del problema, nel cinema del regista tedesco. E la ragione stessa per la quale si definisce moderno il suo cinema. Se in ogni film di Wenders c'è la descrizione di un itinerario (che da fisico, diventa morale) è perché questa situazione di spazio e di tempo conduce a quello stato di grazia contemplativo che permette (come permetteva ai primi pittori moderni) la ricerca di una nuova verità, la possibilità di una nuova conoscenza.

Si è detto che Wenders, cineasta europeo di un modernismo che ha sempre cercato di spezzare la continuità classica del racconto, guardava al cinema americano proprio perché questo cinema era la culla e l'essenza del racconto cinematografico tradizionale. Se PARIS, TEXAS viene definito ormai come il suo film definitivamente "americano", se gli si riconosce di aver saputo per la prima volta raccontare una storia che fosse seguita anche dal grande pubblico, è quindi perché per la prima volta il travaglio delle sue opere precedenti riesce a sfociare in una struttura praticamente perfetta. E molti degli aspetti delo film appaiono effettivamente di una logica di linguaggio (e quindi anche di significato) impeccabili. I temi sono quelli di sempre (il viaggio, la ricerca della propria origine e identità, i rapporti edipici, la difficoltà di comunicare, il fascino americano) ma il modo di ordinarli è inedito; e sfocia in quella facilità di lettura che, come abbiamo visto, è stata forse e in parte fraintesa. L'inserimento dei significati morali in quelli figurativi che fanno da sfondo sono ad esempio semplicissimi quanto efficaci: quando il protagonista ha smarrito la conoscenza di se stesso, lo vediamo letteralmente deviare da una strada maestra e asfaltata che corre nel deserto californiano. Quando egli si reinserisce progressivamente nella società e nella famiglia egli lo fa, ancora letteralmente, attraverso gli oggetti più domestici, le scarpe da lucidare, i piatti da lavare. E ancora: dalla privazione della parola nel periodo di amnesia, egli accede progressivamente al linguaggio. Per sfociare nella lunga confessione verbale (ancora un inedito per Wenders) secondo lo schema psicanalitico tradizionale.

Inverso il processo spaziale: dalla vastità sconfinata del deserto iniziale, il film termina in una cabina ristretta, quello del peep-show, seguendo un itinerario estetico che sposa quello mentale di Travis. La semplicità e la purezza dello sguardo di Wenders in questo film, il rigore e la logica secondo i quali si organizza la singola inquadratura e tutta la progressione drammatica del racconto sottolineano il raggiungimento di quel modernismo che il cinema del regista ha inseguito a lungo, in film anche più tormentati (e che taluni preferiranno) di questo. Un modernismo che, grazie appunto ad un contatto inedito e autentico con la realtà non è mai arido e schematico: ma raggiunge al contrario quella carica affettiva (si pensi anche alla sequenza in superotto) che lo rende universale e poetico.

PARIS, TEXAS non è nemmeno quel robot di perfezione che tutto ciò potrebbe indicare. Non mancano gli errori (certi personaggi, come i genitori adottivi, dimenticati per strada; l'incontro nel peep-show, straordinario per intuizione linguistica con quel vetro che separa i due, permettendo di vedere ma non di esser visti, non manca di prolissità) che rendono la seconda parte del film meno compatta della prima. Che denunciano certi problemi non solo di produzione (un'improvvisa mancanza di fondi obbligò Wenders e Sam Shepard, cosceneggiatore, ad abbreviare i tempi) ma che sottolineano ancora una volta le difficoltà che prova il regista tedesco quando deve parlare di donne e amori... Pur nel suo film che, anche in questo senso, meglio gli è riuscito PARIS TEXAS rimane comunque un'opera nata in un momento di grazia. Tutto il fascino del film, dagli spazi estesi del deserto nel quale Travis ritrova la propria identità, al filmetto un superotto che gli permette di ricostruire il nucleo familiare, all'incontro con Nastassia Kinski nel quale si sciolgono i nodi, nasce esclusivamente e magnificamente dalla qualità dello sguardo. È la prerogativa del cinema più grande, quella sulla quale è impossibile speculare.


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