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PARANOID PARK
(PARANOID PARK)
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  Stampa questa scheda Data della recensione: 20 gennaio 2008
 
di Gus Van Sant, con Gabriel Nevins, Jake Miller, Daniel Liu, Taylor Momsen (Stati Uniti, 2007)
 
ELEPHANT ne era l'affermazione, PARANOID PARK la conferma, Gus Van Sant è il poeta, il testimonio del passaggio dall'adolescenza all'età adulta per eccellenza; il più diretto, intelligente ed originale nel cinema contemporaneo (senza dimenticare il Larry Clark di KIDS e KEN PARK). Film sulla passione giovanile per il monopattino, inchiesta poliziesca su una morte accidentale, cronaca di una deriva da delitto in attesa di castigo? Certo, PARANOID PARK è anche tutto questo; ma, ed è ciò che ci affascina, una vertiginosa, al tempo stesso sonnambolica discesa all'interno di un giovane individuo, un itinerario in suoni ed immagini che si imprime per sempre nella nostra pur inflazionata memoria. Se nel deserto di GERRY la morte faceva parte di un miraggio astratto, se in ELEPHANT il dramma di Columbine la inseriva concentricamente nell'attualità sociale, quella di PARANOID PARK ne rappresenta l'implosione degli effetti all'interno di una psicologia.

Adeguarsi alla cinepresa di Van Sant, invitavo a proposito di ELEPHANT. Per catturare, incollandoci alle sue spalle, la risonanza quasi liquida di quella bolla giovanile in via di formazione: con la stessa straordinaria naturalezza di uno sguardo cinematografico che evita di spiegare, interpretare, organizzare una psicologia, un dialogo, una situazione. Che evita il rischio quasi inevitabile in casi del genere: l'espressione di un giudizio morale. Seguire una progressione drammatica che nasce a dispetto di ogni calcolo, grazie al solo intervento della sua impressionante autenticità esistenziale. Nel cinema di Van Sant, in tutta semplicità, in tutta (si fa per dire) facilità, lo spettatore è quasi costretto a seguire il significato di uno sguardo. Fuso, con incredibile fluidità in un magma alimentato dall'eccitante pertinenza delle scelte musicali (l'evasione felliniana, magari illusoria, di Nino Rota; ma ricondotta su terra dalla splendida contemporaneità delle composizioni di Elliott Smith, Cast King, Ethan Rose); e, soprattutto, in un'introspezione basata sulla formidabile esaltazione del sottofondo sonoro (bisogna riandare, per degli echi così veri dell'ambiente a certi Altman, a LA CONVERSAZIONE di Coppola). Così, da quella visione iniziale, straniante ed incantata del ponte di Portland con il traffico quasi sospeso nel vuoto di una levitazione esistenziale, la mescola dei supporti filmici fra la brutale definizione del 35 mm digitale e l'interiorizzazione flou dell'otto millimetri o del video non serve tanto a separare la dimensione del sogno da quella della realtà, lo skateboard da quel povero corpo ritrovato sui binari: ma a ricondurre tutte le coincidenze dei tragitti espressivi, la molteplicità delle informazioni visive e sonore ad una delicatissima intimità con i personaggi (una per tutte, la squisita prima volta fra il distratto Alex e l'intraprendente Jennifer). Progressivamente, in un cinema che non è mai simbolico o referenziale, gesti, rituali quotidiani come le giravolte degli skaters perdono il loro aspetto puramente decorativo per farsi giravolte di vita.

Allora non si tratterà più soltanto della colpevolezza del protagonista (perfetta identificazione di Gabe Nevins) reclutato, come tutti gli altri giovanissimi sul sito MySpace, altra intuizione, dell'assenza benevolente e materialista degli adulti; dei genitori, filmati sempre di spalle, o sfuocati. Ma dello smarrimento, dell'incoscienza, dell'invenzione di un modo di sopravvivenza in quella sorta di stato di fluttuazione che caratterizza i protagonisti, di quel passaggio della vita che permette di accedere all'età della conoscenza e della responsabilità. Come a quella della perdita delle illusioni.


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