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OGNI MALEDETTA DOMENICA
(ANY GIVEN SUNDAY)
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  Stampa questa scheda Data della recensione: 8 aprile 2000
 
di Oliver Stone, con Al Pacino, Cameron Diaz, Dennis Quaid, Jamie Foxx, Jim Brown, James Woods (Stati Uniti, 1999)
 
Oliver Stone, si odia, o si adora. Personalmente, ho odiato (NATO IL 4 LUGLIO, TRA CIELO E TERRA, NATURAL BORN KILLERS) e adorato (PLATOON, JFK, NIXON, U-TURN); in quanto a OGNI MALEDETTA DOMENICA, credo che finirò per amare, magari a metà. Ma non credo si tratti di un eccesso di volubilità.

Da JFK in poi, il cinema del regista più focoso del cinema americano è fatto per suscitare sentimenti contrastanti. E, più o meno allo stesso modo, montaggi affannosi, stacchi brevissimi, sciabolate di luci sparate in macchina, primissimi piani. Esasperazioni formali? Come no; ma prima di considerarle gratuite, occorre avere il tempo di digerirle. Perché questa tecnica narrativa fatta d'infiniti tasselli (3700 inquadrature d'immagini, suoni, musiche) presi d'istinto dalla realtà che ci circonda sarà pure il risultato compiaciuto di un organizzatore di fotogrammi più dotato dei suoi simili: ma rappresenta un tentativo più ambizioso di mettere in relazione critica i mezzi a disposizione del mondo dello spettacolo con le leggi (sportive in questo caso, ma sempre politiche, economiche, sociali) che governano la morale della nostra società.

I formidabili mosaici dinamici di Stone (che qui, oltretutto si riferiscono ad uno sport, il football americano le cui regole non ci sono evidenti) sono protratti e, soprattutto ripetitivi; ma non fini a sé stessi. Perché si costruiscono secondo una loro logica, partecipano ad una progressione drammatica, una evoluzione corale delle psicologie dei personaggi (oltre 15 i principali, un po' come nei film di Altman), ad una conclusione determinata.

Se questo è il cinema di Oliver Stone, figuriamoci se possa cambiare occupandosi di quella somma di calci più o meno in culo, denti sputati, vomito e sangue tra le pom pom girls rappresentata dal football americano. ANY GIVEN SUNDAY non poteva che essere questo mega clip pubblicitario a colpi di rap, zoomate e rallenti, mischie e sacramenti, dài ragazzi che li inchiodiamo, spogliatoi, docce e biondine in mutandine e reggiseno occhieggiate di straforo. Sarà brillante, violento e superficiale, ma è come il mondo che dipinge; con il condensato di eccitazione, speculazione e manipolazione dello sport fatto oggetto di consumo. E di uno sport di squadra, nel quale i giocatori sono quasi tutti neri, ma i dirigenti tutti bianchi.

Progressista e misogino (come essere le due cose al tempo stesso?) eccessivo ed altrettanto eccessivamente generoso, il cinema di Oliver Stone si alimenta delle proprie contraddizioni. Perché attraverso la rappresentazione di quella che per molti rimarrà la beceraggine del football americano non esita a confrontarsi con i conflitti della società contemporanea, le classi, le razze, i sessi, le generazioni. In una clamorosa metafora girata in colori passionalmente saturi; una polifonia rap-jazz-disco-opera attorno all'allenatore Al Pacino che parla come ai vecchi tempi di lealtà, solidarietà, spirito di squadra. Prima di trasferirsi assieme alla nuova star della squadra, alla faccia adorabilmente capricciosa della proprietaria Cameron Diaz


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