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NATO IL 4 LUGLIO
(BORN ON THE FOURTH OF JULY)
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  Stampa questa scheda Data della recensione: 8 marzo 1989
 
di Oliver Stone, con Tom Cruise, Tom Berenger, Willem Dafoe (Stati Uniti, 1989)
Se la leggenda è più bella della realtà, diceva John Ford, illustriamo la leggenda. Con NATO IL 4 LUGLIO, Oliver Stone vuol riannodare con un modo antico di far cinema (e qualcuno sostiene che ci è riuscito): quello pensato alla grande, quello di Hollywood, di Griffith, di Walsh, o di John Ford appunto. Ma il guaio è che se Stone è sicuramente abile nel descrivere la realtà, egli è del tutto incapace di filmare la leggenda.

Fotografando la realtà del Vietnam nel suo film migliore (PLATOON), non solo Stone riprendeva la grande tradizione del cinema " dalla " guerra (in contrapposizione a quelli " sulla " guerra, come APOCALYPSE NOW di Coppola, o FULL METAL JACKET di Kubrick) di registi come Fuller, Dwan o Walsh. Ma, come spesso succede e non soltanto al cinema, lo straordinario naturalismo del suo stile gli permetteva di raggiungere una dimensione astratta. Di descrivere un itinerario spirituale. I soldati di PLATOON , confrontati al vuoto, al nemico invisibile nella giungla, traducono questa impossibilità di " vedere " in un rifiuto: rifiuto di comprendere, rifiuto di sapere. E, come birilli impazziti, finiscono per drogarsi nelle loro tende, e per uccidersi fra di loro: se il nemico non si vede, allora significa che egli è dentro di noi.

Questa ricerca del demonio che ci conduce all'orrore della guerra, che ci fa sparare sull'amico non soltanto perché accecati dal sole, è la stessa che guida Tom Cruise, il protagonista di NATO IL 4 LUGLIO.

Ma diverso (a parte le sequenze - come sempre ammirevolmente messe in situazione - ancora girate sul terreno di guerra) è purtroppo lo stile dell'autore: che, dovendo descrivere infanzia (i giochi dei bambini che lasciano indovinare il futuro guerriero), adolescenza (il positivismo degli anni Cinquanta, tutto parate, baseball e balli di fine d'anno) e maturità (l'inferno del reduce, l'ospedale addirittura coi topi, la sedia a rotelle, la castrazione fisica che si fa espiazione e redenzione nel pacifismo) non può evitare d'impegolarsi in una giungla ben peggiore (per il nostro) di quella vietnamita. Quella delle spiegazioni mistico-freudiane.

L'occhio brillante, la fronte onesta ed il ciuffo sbarazzino di TOP GUN conducono saggiamente Oliver Stone a Tom Cruise: chi meglio di questo splendido prodotto della razza fiduciosa pre-nixoniana poteva incarnare l'eroe del film? E l'attore non bada a risparmi: la sua è una prestazione di quelle che i giurati confortano oscarizzando a balla. Conforto più che legittimo, per il povero Tom che s'è visto addossare più di una croce: novello Redentore (e, nel caso non avessimo capito con apparizione a dargli man forte, direttamente dall'altra Passione di Martin Scorsese, di Willem Dafoe...), ennesimo Analizzato, poiché in questi casi la castrazione di una generazione si ama tradurre in tubicini di drenaggio da far esorcizzare con prostitute immancabilmente chicane.

Stone è uno che ci sa fare, ma anche uno che sa troppo di sapercela fare: le carrellate soggettive, gli zoom in avanti, i riflettori che sparano nell'obbiettivo della steadycam freneticamente scorrazzata si sprecano. Ma il problema del suo film non è tanto quello di aver voluto trasporre la propria maestria estetica nel negozio di porcellane della psicologia. È di aver voluto trasformare questa laboriosa - ma in definitiva non impossibile - spiegazione di come un nazionalista impregnato di fede si trasformi in uno scettico contestatore, nella solita roboante chincaglieria.

Di aver voluto convincerci che oggi , con l'aria che tira aprendo il primo dei televisori, sia un atto di fede (nel cinema dei Grandi), e soprattutto di coraggio venirci a dire che l'America la si può amare anche senza finire in carrozzella. Come tutte le dichiarazioni, anche quelle d'amore vanno fatte al momento giusto.


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