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NASHVILLE
(NASHVILLE)
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  Stampa questa scheda Data della recensione: 2 settembre 1976
 
di Robert Altman, con David Arkin, Barbara Baxley, Ned Beatty, Karen Black, Keith Carradine, Geraldine Chaplin,Shelley Duvall, Allen Garfield, Scott Glenn, Jeff Goldblum, Barbara Harris (Stati Uniti, 1975)
 
Nashville, capoluogo dello stato del Tennessee è, al tempo stesso, un centro cruciale per la musica e per la politica degli Stati Uniti. Lì, una volta all'anno, convengono tutti i musicisti della "country music"; e da quella città, nel meccanismo delle elezioni americane, parte il nome del candidato del partito che poi, per tradizione, risulta eletto.

Altman ha fatto "anche" un film sulla musica e sulla politica: in NASHVILLE l'idiozia radicata in certi generi musicali è esattamente segnalata. E' così la corruzione, la volgarità, l'ipocrisia della politica. Anche se NASHVILLE fosse soltanto il racconto di un festival musicale, e dei tentativi fatti da parte dello staff di un candidato politico per riunire in un concerto-comizio finale il maggior numero di stelle musicali a fini propagandistici, anche se fosse solo questo, il film di Altamn conterebbe elementi sufficienti a farne un'opera di grande interesse sull'America di oggi, un affresco critico di grande acutezza.

Ma Altman è anche, probabilmente, il regista più geniale che il cinema americano possieda attualmente; ed il suo film è ovviamente qualcosa di più. ASHVILLE è il luogo d'incontro di 24 personaggi: musicisti, politici, accompagnatori, giornalisti, o semplici individui coinvolti nella vicenda. Il luogo e l'occasione è una sola, i loro scopi diversi, ma il destino è uguale per tutti, perché è quello di tutti gli americani di oggi. Il regista introduce, mescola e infine conclude questi 24 personaggi con un'abilità stupefacente. La chiave è una semplicità miracolosa: mai si avverte lo sforzo di seguire uno schema mai sì intravede l'artificio di un procedimento. L'arte di Altman è quella di presentarci e di unire, poi di riunire questi individui con una naturalezza, e quindi una verità ineguagliabile. In NASHVILLE, meno che nelle opere precedenti, si avverte il desiderio dell'autore di rovesciare i valori del racconto, di fare dell'anti-cinema tradizionale, per invitare lo spettatore a meditare sui cliché, sulle formule false che hanno guidato il linguaggio cinematografico e, di riflesso, la "morale" che ha guidato gli autori di quel linguaggio.

Ma qui, come precedenza, è la padronanza portentosa del regista sul gioco degli attori, che gli permette l'impossibile.

Gli attori sembrano colti a loro insaputa, come nei documentari: Altman li lascia improvvisare, vivere in modo autonomo. Quasi nessuno è un cantante di professione: il regista ha persino permesso agli attori di comporre le loro canzoni.

NASHVILLE (dieci ore di filmato originale, poi ridotti a tre) è un momento di creazione collettiva, preso dal vivo. Ma è soprattutto un'incredibile dimostrazione di come si possa, in seguito, ordinare e guidare perfettamente quello che sembrava essere lasciato al caso. Ci sono, nel film, i pregi del cinema - verità, del documentario, con tutta la credibilità, che questo comporta. E, al tempo stesso, quelli della regia: dell'intervento di un'intelligenza coordinatrice, che porti in avanti un discorso preciso e voluto.

Il fascino di "Nashville" sta in questo apparentemente impossibile connubio tra libertà della visione, e volontà di con stingerla in un senso determinato.

La forza ideologica che ne risulta, è esplosiva. Quando Altman, nella straordinaria sequenza finale, porta in scena tutti i suoi 24 personaggi, tirando i fili delle marionette e del discorso, è l'America di oggi che si spalanca dinanzi ai nostri occhi. Non solo quella di Dallas, dei Kennedy ma anche quella di domani. Ed è proprio perché gli attori sembrano ancora e sempre colti per caso, all'insaputa, e quindi sembrano agire di loro iniziativa, inconsapevolmente, che il destino dell'americano appare così vero, così ineluttabile, così logico.L'uccisione sulla scena della cantante non è soltanto un richiamo ai Kennedy. Ma nella folla che riprende a cantare "It don't worry me" ("non mi preoccupa") a pochi secondi dal dramma, sta tutta la contraddizione, la tragedia ma anche la forza dell'America. In queste sequenze indimenticabili il cinema di Altman è quello della lucidità più totale.

Raramente un cineasta ha saputo guardare se stesso, il suo popolo, il suo momento storico con altrettanta serena e distaccata sapienza.

Il film può essere visto in mille modi: è uno spaccato di vita americana che possiede un interesse universale. Ma, ripeto, il suo fascino segreto sta nel modo con il quale Altamn ha piegato il suo portentoso mestiere (oltre alla direzione degli attori, un uso forse unico al mondo della colonna sonora, con i suoni, i discorsi dei diversi personaggi che si uniscono, amalgamando il racconto; l'arte delle rotture "impossibili" di tono; i movimenti di macchina e ed il montaggio che concorrono alla costruzione globale del racconto, ecc.) ad una visione storica e umana di commovente lucidità.

Altman guarda, giudica, condanna e assolve allo stesso tempo. Ma, soprattutto, egli come i suoi interpreti, come tutti gli americani inquadrati dalla cinepresa, "prende conoscenza" di una situazione.

C'è un solo personaggio, nel film, che è tagliato fuori dalla storia. Che, al di là del bene o del male, non sia consapevole del proprio stato e del ruolo che sta compiendo. Ed è quello di Géraldine Chaplin, la sola che non comprende alla fine "cosa stia succedendo". Non a caso, è la sola straniera del film.


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