In un mondo, quello cinematografico, portato ad una misoginia più o meno dichiarata, Otto Preminger è sempre stato un pittore delicato delle psicologie femminili. I suoi film sono spesso il ricordo della figura di una attrice che, nell'incontro con il celebre viennese, ha trovato il momento magico della propria carriera, o l'occasione per il lancio. Si pensi a Liza Minelli, a Jane Fonda, alla Saint di EXODUS, alla Remick di ANATOMIA DI UN OMICIDIO, a Jean Seberg nella SANTA GIOVANNA» o in BONJOUR TRSITESSE, a Dorothy Dandrige, a Kim Novak, Marilyn e, prima ancora Linda Darnell o Gene Tierney. L'elenco si fa lungo, perché Preminger è ormai quasi settantenne. Questo suo ultimo film conferma la regola e, purtroppo anche l'anagrafe. Perché anche qui sono le donne a condurre la danza, a volgere verso il mondo uno sguardo lucido e inquisitore. I maschi condizionano le loro azioni, ma sono i personaggi femminili che prendono coscienza delle situazioni.
Succede perché la stanchezza del regista (felicissimi di essere smentiti alla prossima occasione) è denunciata dalla forma del film. Zeppo di procedimenti antiquati ed in disuso, di «flash-backs» catastroficamente inopportuni, persino di trucchetti antidiluviani come le sovrimpressioni con voci fuori campo. Con tutto questo, che non è poco, SUCH GOOD FRIENDS conserva più che il ricordo di una personalità cinematografica fra le maggiori. A parte la straordinaria vitalità del dialogo (che pur deve aver perso assai con il doppiaggio), prorompente, di una dinamica a tratti incontenibile, è l'incredibile ferocia e violenza della polemica che stupisce. Preminger si butta a fustigare il conformismo e la crudeltà della borghesia nuovayorkese con l'arma del dileggio. E, sotto la vernice sottile dell'umorismo la sua condanna è di una forza inaspettata, quasi di una rabbia esasperata. In questo senso, al di là della ruggine della costruzione, il film è l'opera di un ventenne.