L'arte di "far paura" in cinema, è l'arte di "come" si fa paura. Perché Hitchcock (si finisce sempre col parlare di lui, ma come altrimenti?) è grande, e Dario Argento lo è infinitamente meno? Eppure, tutti e due fanno paura. C'è un sistema semplice, per far paura. Quello conosciuto anche dal più modesto direttore di gialli televisivi. Fate avanzare, tanto per fare un esempio, un protagonista più o meno ignaro per un corridoio. Fategli aprire delle porte, oltrepassare delle soglie. Una, due o tre volte non fategli succedere niente. Poi, alla quarta, fate comparire, improvvisamente alle sue spalle, qualcuno nell'immagine. E fategli dire "buh". Vedrete che tutta la sala sobbalzerà. Ma se questo è fare del cinema, se questo è fare paura al cinema, allora voi e io, domattina, possiamo tranquillamente andare a girare il nostro film di spavento.
Questo del "buh" dietro alla porta (o del sangue che sgorga a fiotti e la stessa cosa) è il sistema dei Dario Argento. Non dico che non serva, ma la paura al cinema è un'altra. E' quella che va definita, più che paura, inquietudine. La prima parola, è rozza, volgare. Serve a far soldi coi sistemi più spicci. La seconda è molto più fine, intelligente, difficile. Significa smuovere dentro di noi delle cose più nascoste, più importanti, più rivelatrici. Significa toccare nell'intimo, invece cha all'esterno. Significa fare, magari, della poesia, invece che della canzonaccia. Hitchcock, nei suoi momenti più grandi (anche lui, naturalmente, qualche volta è stato tentato dall'effetto più facile) ha toccato in modo geniale le nostre inquietudini più nascoste:ha fatto trascorrere metri e metri di pellicola senza il minimo effetto: eppure, lentamente, l'inquietudine s'installava in noi. Certe sicurezze si indebolivano, certe apparenze si sdoppiavano, progressivamente. Ed ecco che l'arte di "far paura" si trasforma, allora, in arte di scrivere. Perché per muovere le nostre sicurezze interiori, bisogna saper scrivere in modo impeccabile. Procedere, senza un errore, per un discorso strutturale estremamente sottile, preparato, meditato. Ed è la ragione per la quale un film di Hitchcock, da molti ritenuto soltanto un abile e allegro cantastorie, è in effetti un'opera d'arte. Né più né meno di un film di Visconti, che tratti di cose apparentemente più serie.
Tornando a Polansky: opere come ROSEMARY'S BABY, REPULSION o il delizioso (anche se diverso, poiché sul piano della satira), IL BALLO DEI VAMPIRI erano opere di grande intelligenza: perché miravano a sollevare dei dubbi nelle nostre certezze, a muovere le acque di un nostro conformismo di mente e di classe.
L' INQUILINO DEL TERZO PIANO è l'ombra di tutto questo: rimane paura, facile. Tutto è prevedibile. Dall'aspetto della casa, alla faccia della portinaia, a quella del proprietario. Tutto scricchiola, il lavandino sgocciola, l'effetto è scontato. L'obiettivo della cinepresa è il grandangolo, perché serve a dilatare le atmosfere, gli effetti. E la musica, eterna grancassa quando manca l'ispirazione è pronta a sottolineare grossolanamente i momenti presupposti forti. Rimane un mestiere alla Polanski, ma mestiere appunto.