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KEDMA Film con lo stesso punteggioFilm con lo stesso punteggioFilm con lo stesso punteggioFilm con lo stesso punteggio
  Stampa questa scheda Data della recensione: 16 maggio 2002
 
di Amos Gitai, con Andfrei Kashkar, Helena Yaralova, Yussef Abu Warda (Israele, 2002)
 
Amos Gitai (KADOSH, KIPPUR), studi di architettura negli Stati Uniti, ha dedicato tutta la sua opera alle mille sfaccettature del proprio paese, "un microcosmo grande appena più della Corsica e sempre in mutazione". Microcosmo in drammatica evoluzione, del quale il maggior regista israeliano è andato, una volta ancora, a sondare le origini, le cause: talvolta più utili da analizzare degli effetti, precipitosi ed ambigui. Cercare nel passato una risposta al presente.

KEDMA è infatti il nome di una di quelle carrette del mare che continuano a trasportare, più di mezzo secolo dopo quel 7 maggio 1948, migliaia di emigranti ammassati sui loro ponti. Quelli di allora erano i sopravvissuti della Shoah. Parlavano, come nel film, cinque lingue, l'ebraico, lo yiddish, il russo, il polacco e l'arabo. Cercavano in un amplesso -come nella bellissima sequenza iniziale- più il lenimento alla disperazione che al desiderio, fra gli stracci della civiltà alla deriva. Due settimane più tardi, gli Inglesi avrebbero abbandonato il loro mandato, Ben Gurion creato lo stato di Israele, ed i miliziani del Palmach, l'armata clandestina ebraica, iniziato a battersi contro gli arabi di Palestina…"Se vuoi sopravvivere, devi dimenticare", si dicono i protagonisti sbarcando sulla spiaggia della Cesarea. Ma alla fine, dopo aver attraversato mezzo mondo per sfuggire all'Olocausto, dopo essersi confrontati alla distaccata resistenza degli Inglesi, all'odio comprensibile dei palestinesi, alle contraddizioni dei correligionari che li accolgono e proteggono prima di spedirli ad un nuovo massacro, dopo una sommaria istruzione paramilitare, alla fine diranno: "Non volevamo diventare così. Siamo un popolo senza storia. E il Messia è un semplice mito, senza il quale tutto sarebbe stato differente".

La distanza che separa le due frasi è quella occupata dal semplice episodio illustrato da Gitai: l'itinerario dalla spiaggia al kibbutz, dall'abulia rassegnata all'aggressività, dalla disperazione al desiderio di rivincita e di autodifesa. E, naturalmente, da quelle altri frasi terribili (Gitai ha concluso il film -operazione stilisticamente forse più azzardata- facendo recitare testi letterari e poetici alle due parti) pronunciate dal contadino palestinese: "Resteremo qui, malgrado voi, come un muro. Riempiremo le prigioni di orgoglio. Avremo fame, saremo malvestiti, ma ci difenderemo. E faremo dei figli che si rivolteranno, generazione dopo generazione."

L'arte di Gitai ha sposato mirabilmente i ritmi di KEDMA alla tragica contraddizione di un mito che ancora non finisce di squagliarsi davanti ai nostri occhi. Dalla lentezza spossata dello sbarco alle convulsioni di un massacro annunciato ha fatto opera d'artista: condensare in un tratto elementare, vicino all'individuo, l'eternità di una condizione universale.


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