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KUNDUN Film con lo stesso punteggioFilm con lo stesso punteggioFilm con lo stesso punteggioFilm con lo stesso punteggio
  Stampa questa scheda Data della recensione: 1 maggio 1998
 
di Martin Scorsese, con Tenzin Thuthob Tsarong, Robert Lin, Gyurme Tehong (Stati Uniti, 1997)
 
Perché Martin Scorsese si sia messo sulle tracce di due film discutibili sull'argomento come IL PICCOLO BUDDA di Bertolucci e SETTE ANNI IN TIBET di Annaud non è esattamente un mistero. Piuttosto, dopo questi tre film, il vero mistero rimane ciò che si cela veramente dietro le mura mitiche del santuario di Lhasa.

Le cose sono più semplici di quanto non appaiono dalle nobili immagini di KUNDUN. Poiché tutti hanno nella memoria quelle che ci accompagnano da ormai molti anni nella splendida carriera del cantore del martirio: del fatto che, da TAXI DRIVER a GOODFELLAS, attraverso il sublime TORO SCATENATO esse si siano tutte costruite su storie di individui che, un po' per il fato, molto per un desiderio inconscio di autopunizione erano destinati al crollo ed alla distruzione, a somiglianza del sistema che avevano creato. Oppure ancora, come in L'ETÀ DELL'INNOCENZA, da altri personaggi che più prosaicamente, forse più laicamente, venivano annullati, annichiliti da un costume, una società, un'epoca che aveva fatto delle buone maniere, del levigato desiderio di non affrontare la realtà delle cose, la propria ragione di esistere. Proprio come dice ora, parlando di questa sua ultima fatica, Martin Scorsese: "Invasione o meno, il Tibet avrebbe dovuto guardare in faccia all'Occidente ed al ventesimo secolo. Dovevano avvenire dei cambiamenti: certo, la Cina è stato il peggiore dei cambiamenti possibili."

E non dimentichiamo, infine, chi sia stato ad aver avuto l'impudenza artistica di compiere il grande passo; di passare dalla piccola martirologia (dei tassisti, dei pugili, dei suonatori di sassofono, degli impiegati di banca, degli aspiranti malfattori) a quella con la maiuscola. Puntuali, de L'ULTIMA TENTAZIONE DI CRISTO dissero (allora...) i detrattori di Scorsese che meglio avrebbe fatto a restarsene con i suoi cristi con la minuscola; e che i suoi peccati d'orgoglio, la pittura delle vette del mito, della spiritualità, dell'ascesi mal si addicevano ad un credente, forse anche al più grande fra quelli di Hollywood, ma pur sempre abituato a frequentare le bettole di MEAN STREET piuttosto che le atmosfere rarefatte della trascendenza. Eppure, L'ULTIMA TENTAZIONE era per tante ragioni vicinissima al suo mondo: filmando la Bibbia come un melodramma, quello di un padre che invita il proprio figlio al sacrificio, del figlio di Dio tradito, assassinato ed infine resuscitato, intuendo genialmente che gli conveniva impostare il film sul dramma di Giuda piuttosto che su quello assai più scabroso di Gesù, il regista finiva per muoversi come fra i suoi conflitti fra piccoli mafiosi. E confermava di essere capace di filmare il Soggetto dei Soggetti come al solito: da maestro insuperabile del verismo cinematografico contemporaneo.

Altra storia, il buddismo. Con i suoi testi, le sue atmosfere, la sua dimensione contemplativa, serena, statica. E, di conseguenza, anti-drammatica...

Scorsese racconta "la storia di un ragazzo che ha dovuto fare una scelta molto difficile, quella della non-violenza, sapendo che sarebbe costata la sopravvivenza della sua stessa cultura" con uno scrupolo di autenticità, una magnificenza estetica non disgiunta da qualche deflagrante intuizione espressiva degne (come dubitarne?) della sua immensa reputazione. Gira in Marocco (per le ovvie opposizioni della Cina, e quelle un po' più pretestuose dell'India), si appoggia alla sapienza delle scenografie e dei costumi di Dante Ferretti, alle porpore ed agli ori della fotografia allusiva di Roger Deakins, alla musica elaborata ma che a me sembra un po' compiaciuta del celebre Phil Glass. Per creare un film semplice e diretto, nella sua volontà di seguire non tanto una progressione drammatica: quanto l'itinerario spirituale e filosofico di un ragazzino prescelto ("kundun") a reggere le sorti di uno degli ultimi stati religiosi, in un mondo piuttosto in altre faccende affaccendato. Un film intimista, costruito sapientemente per i suoi interni, intesi a specchiare l'intimità dei personaggi; ma che non disdegna il lirismo dell'affresco non proprio accademico, comunque a metà strada fra un David Lean ed un Bertolucci. Un film, soprattutto, clamorosamente opposto - nella sua serenità contemplativa, nella sua agiograficità elegiaca- a quelli ai quali Scorsese ci aveva finora abituato. Il film di un credente rispettoso, forse reverenziale: sulla purezza, e sincerità del quale non si può che essere ammirati. Oppure, quello di un vulcanico creatore di forme cinematografiche: ma qui praticamente sottomesso alla sceneggiatura che Melissa Mathison (E.T.) ha tratto da una lunga serie di colloqui con il Dalai Lama. Con risultati certamente elevati in quanto a scrupoli di autenticità; ma assai discutibili, se giudicati in termini di energia di coinvolgimento ed inventiva. Dove non è sempre detto che, a somiglianza dei silenzi eloquenti di Sua Santità, la staticità delle immagini sia sempre sinonimo di eloquenza.

Che si serva della rappresentazione sublimata della violenza per esprimere la religiosità e l'esigenza della sofferenza sua e dei suoi personaggi, oppure che gli riesca di rigenerare la propria visione in un atto di fede sereno e semplice come in KUNDUN, Martin Scorsese è condannato, insomma, a far sempre discutere. Il che non è di certo un male.


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