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KAGEMUSHA, L'OMBRA DEL GUERRIERO
(KAGEMUSHA)
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  Stampa questa scheda Data della recensione: 7 maggio 1981
 
di Akira Kurosawa, Tatsuya Nakadai, Tsutomu Yamazaki, Kenichi Hagiwara, Daisuke Ryu (Giappone, 1980)
 
Cinque anni dopo DERSU UZALA, dieci dopo DODES KADEN, il settantenne autore di RASHOMON, uno dei grandi maestri della tradizione cinematografica ritorna finalmente con questo film al Festival di Cannes 1980 e vince la Palma d'Oro. Se DERSU UZALA aveva dovuto girarlo nell'Unione Sovietica, qui sono stati gli americani, Coppola e George Lucas in testa, ad avanzargli parte dei soldi e sostegni alla distribuzione.

Un celebre avvenimento storico giapponese è alla base del film: nel Cinquecento, una gloriosa armata di cavalleria venne sconsideratamente e inspiegabilmente mandata al massacro, contro l'esercito di un clan nemico, armato di armi da fuoco. Perché?, si è chiesto Kurosawa. E ha cercato di ricostruire gli antefatti umani che hanno preceduto questo clamoroso fatto storico.

Non solo: alla base del film sta sicuramente l'interesse del regista per quel periodo storico. Un'epoca - cerniera, un momento di cambiamenti che segna il passaggio dal dominio di un gruppo di feudatari avventurosi, ambiziosi, ma anche colti, rispettosi delle personalità altrui, ad un altro dal potere centralizzato. Che con sistemi polizieschi, certamente più razionali, manterrà a lungo la propria dominazione sul Giappone.

Quest'ammirazione di Kurosawa per i suoi personaggi traspare da ogni sequenza di KAGEMUSHA: non solo il grande Takeda Shingen è dipinto con rispetto, ma così lo sono i nemici, i suoi amici o parenti che gli sono inferiori e che si scontrano fra di loro rispettando l'individuo che tradisce la qualità di un'epoca.

All'interrogativo sulla battaglia, all'ammirazione per un'epoca, si aggiunge nelle intenzioni di Kurosawa, l'invenzione del Kagemusha, ossia l'ombra, il sosia. Per non perdere la propria influenza anche dopo`la propria scomparsa, i Principi usavano un sosia: questi prendeva il posto del sovrano per qualche tempo dopo la sua morte, ingannando così nemici e anche amici. KAGEMUSHA è la storia di uno di questi sosia. E se le battaglie, la ricostruzione di un'epoca costituiscono l'aspetto più evidente della bellezza del film, è questo destino individuale, di un misero ladruncolo che assurge alle vette del potere, per venire rigettato una volta inutile, che costituisce il tema più intimo e poetico del film.

Come spesso accade, le ragioni sono anche (Kurosawa, che non è certo uno che si svela facilmente, direbbe soltanto... ) pratiche ed economiche. Il personaggio del sosia permette al regista di dipingere un'epoca nell'ottica di un solo individuo, dal destino umile e breve: e quindi con un'economia di mezzi indispensabile ad un autore che, come abbiamo visto, non gode di facili crediti nemmeno nel paese del miracolo economico. Ma il risultato è avvincente: lontano dagli affreschi storici trionfalistici al quale il cinema ci ha abituato da tempo, KAGEMUSHA ci parla della Storia, ma senza mai perdere di vista per un istante l'Uomo. C'è una umiltà commovente nel film: che è espressiva (come vedremo al termine), ma soprattutto morale.

Kurosawa ammira il principe Shingen Takeda, ma è vicino con una sensibilità infinita al Kagemusha. Se la visione affascinante dei movimenti di massa colpisce immediatamente, è la modesta avventura del sosia, seguita con una attenzione minuziosa che potrebbe essere soltanto nipponica, ad attirare la nostra attenzione ad una seconda proiezione. Kurosawa ci mostra il ladruncolo abbandonare la propria sfrontatezza, la propria volgarità, man mano che assume le sembianze, la personalità del Principe. Un processo di auto-investimento, di auto-cancellazione. Al culmine della parabola, il ladro sarà sublimato, si sarà ormai dotato di tutte le qualità morali, di tutta la grandezza umana del Principe. Ed è a questo punto che verrà smascherato, banalmente, e scacciato dal clan. Il suo dramma precipiterà allora parallelamente al crollo della grandezza del clan dei Takeda. Privato della propria identità due volte (la prima di ladro, la seconda di signore), ombra di qualcuno che non esiste più, impossibilitato a ritornare sui propri passi, il Kagemusha non potrà quindi che scomparire.

La sua ascesa, che Kurosawa descrive con un seguito di straordinari attenzioni poetiche (l'incontro con il nipotino, apprendistato a corte, l'incontro con le concubine) e il suo crollo, che il regista dipinge con brevi, essenziali inquadrature, avvengono in parallelo con quelli del clan Takeda e, se vogliamo, di tutta un'epoca storica, di una mentalità, di una visione del mondo. Se ancora non fossimo in chiaro sulle intenzioni di Kurosawa, le ultime immagini del film ce lo rivelano in modo folgorante. L'armata distrutta, il clan scomparso, il Kagemusha è morente sulle rive di un fiume. Trascinata dalla corrente passa un'insegna della famiglia ormai scomparsa. Il sosia cerca di trattenerla, di raggiungerla con una mano tesa. Ma la morte lo ghermisce, la corrente lo trascina! La Storia ha ormai fatto piazza pulita.

In poche immagini si riassume lo spirito del film: il destino individuale e quello universale che per un istante sono coincisi, la grandezza dell'uomo semplice che per un attimo è stata quella di più uomini, e di un'epoca tutta. Il fascino del sogno, dell'immaginazione artistica che ha dato vita, per un breve istante, al miracolo.

Questo gioco di rinvii di significati, dal più piccolo al più grande, a Kurosawa riesce grazie ad una maestria espressiva che non ci sorprende naturalmente più di tanto. Se negli interni e nelle scene "psicologiche" la visione e improntata a quella serenità equilibrata tipica dell'arte giapponese, nelle scene d'azione e di massa lo stile del maestro rivela forse le origini occidentali di una cultura che egli ha sempre ammirato. Come nel cinema di Bresson, sono i suoni che dettano spesso l'azione, con un'economia di mezzi che fa di necessità virtù. Egualmente, le immagini (non a caso si è parlato di Paolo Uccello per le battaglie) sono costantemente allusive, la violenza, il dramma non sono mai descritti, ma semplicemente suggeriti. È quindi una minaccia, drammatica, interiorizzata, che investe lo spettatore: colpendolo con una efficacia sottile e affascinante.

KAGEMUSHA è quindi un film costantemente trattenuto, suggerito, rilanciato. Un gioco espressivo che si fa astratto e spirituale, raggiungendo quella spiritualità del dramma che costituiva la ragione d'essere del film.

Un film sulle invenzioni umane che dettano il destino e la storia, tutto giocato sulla riflessione e, soprattutto, sull'umiltà.

Con questa storia di ladri e di signori, il maestro settantenne carico di gloria ci trasmette una lezione commovente di semplicità e di modestia. In questo incontro con il miserello travolto dagli eventi più grandi di lui, che si aggiunge alla lunga collana di gloriosi emarginati proposti dalla lunga carriera del regista, l'arte di Kurosawa trova quell'istante di grazia privilegio della maturità e della saggezza.


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