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KING KONG
(KING KONG)
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  Stampa questa scheda Data della recensione: 1 gennaio 2006
 
di Peter Jackson, con Naomi Watts, Adrien Brody, Jack Black, Thomas Kretschmann, Kyle Chandler, Jamie Bell, Andy Serkis (Stati Uniti, 2005)
 
C'è una similitudine ed una differenza fondamentale fra il KING KONG e l'Harry Potter che si contendono attualmente gli spettatori di mezzo mondo. Ambedue sono opere che riflettono aspetti del cinema destinato ad una calcolata diffusione planetaria. Ma se il secondo è diretto da un regista autore di qualche film fortunato ma perlomeno impacciato nell'evasione fantastica, dentro l'impresa dei SIGNORE DEGLI ANELLI splendeva già evidente la felicità inventiva, la costante ispirazione dell'australiano Peter Jackson.

Scomodare uno dei miti più autentici che il cinema rivendichi, rispolverare la celebre battuta “E' la Bella che ha ucciso la Bestia” (o il Cinema, la Società, la Natura Umana?), riesumare fedelmente il KING KONG del 1933 di Merian C. Cooper e Ernest B. Schoedsack raddoppiandone la durata grazie ai 200 e passa milioni di dollari ed ai presunti miracoli permessi dagli effetti digitali poteva risultare operazione altrettanto sciocca e cinica della messa morte del più celebre, assieme a Tarzan, dei bestioni della celluloide. Anche perché il film è banalizzato dal ricorso al solito terrore gelatinoso computerizzato: non solo tirannosauri e altri giurassici già tirati in ballo nel 33, ma una valanga (anche se ironica, è vero) dei più repellenti millepiedi, ragni e postmoderni lumaconi. Quasi che si fosse ritenuta ormai insufficiente la carica di inquietudine (determinante all'incremento del consumo di popcorn) trasmessa dagli interrogativi, fisici, e simbolici, freudiani, erotici proposti dall'incontro impossibile fra la biondina in sottoveste e il gorillone melanconico.

Con una folgorante prima parte (la New York della Depressione ed il viaggio per mare verso l'isola misteriosa) ed una poetica e commovente terza parte (il ritorno dello scimmione incatenato e l'addio della coppia in vetta all'Empire State Building) il KING KONG che Peter Jackson sognava di fare da sempre vale fortunatamente molto di più di quelle riserve pruriginose. Quello del 33 è rimasto fra i più preziosi ricordi dei cinefili perché rappresentava uno specchio fedele dell'idea stessa di cinema: intesa come sintesi fra l'avventura, il fantastico e lo spettacolo. Di conciliazione fra quegli elementi tradizionali del mito polare. Quello di Jackson è uno specchio dello specchio, un atto di vera e propria devozione che il regista australiano non solo rispetta, ma amplifica poeticamente. Animando dapprima i dagherrotipi d'epoca per ricreare mirabilmente l'epoca del New Deal di F.D. Roosevelt con le ballerine di vaudeville ed disoccupati sullo sfondo di Times Square. Poi, una volta scoperta la grazia fragile ma imperiosa della splendida Naomi Watts , spedendola con gli altri avventurieri per un mare fatto di mozzi che sfogliano “Cuore di tenebra” e cupidi nostromi, capitani intrepidi e, ovviamente, cinematografari invasati. Ed è allora Conrad, ma pure Melville, il Lang di MOONFLEET e, a questo punto, il Coppola di APOCALYPSE NOW. Sull'isola riesce ancora a giocare di charme ed ironia, fa innamorare la bella e la bestia mentre contemplano i tramonti infuocati da Technicolor d'epoca; prima che la biondina lo conquisti a colpi di giochini d'illusione e di acrobazia. Come andrà a finire lo sappiamo tutti: ma, in una sequenza burlesca ed incantata, e prima di finire sul grattacielo mitragliati dai biplani verseremo ancora una lacrima mentre pattinano sugli stagni gelati di Central Park. Perché la riuscita di questo Jackson è tutta nella sua arte di lasciarsi andare al piacere di filmare; sopra le righe, di una risaputa ma sempre più magica avventura.


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