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JACKIE BROWN
(JACKIE BROWN)
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  Stampa questa scheda Data della recensione: 26 aprile 1998
 
di Quentin Tarantino, con Pam Grier, Samuel L. Jackson, Robert Forster, Bridget Fonda, Michael Keaton, Robert de Niro (Stati Uniti, 1997)
 

"Non voglio che tutti i miei film si assomiglino. In questo mi sento diverso da un Woody Allen o da uno Spike Lee, senza pensare per questo che il loro sistema sia meno valido. Mi sento più vicino ad uno Scorsese, ogni film del quale ha una sua propria autonomia, anche se si sente che è la stessa persona ad averlo girato". Se JACKIE BROWN deluderà più di un ammiratore della costruzione vertiginosa di PULP FICTION, se l'ultimo film dell'autore di RESERVOIR DOGS sembrerà all'acqua di rose rispetto a quell'esordio coscientemente delirante ma se, infine, JACKIE BROWN deve proprio a questa diversità la propria grandezza, è perché all'ex-diabolico Quentin è riuscito di passare dalle parole ai fatti. O, se preferite, dalla strabiliante fascinazione dei dialoghi e dell'azione alla maturità di un autore che si avvicina al segreto dei personaggi, ed alla vita.

JACKIE BROWN non contiene infatti (quasi...) più quegli elementi che avevano caratterizzato il cinema tarantiniano: la violenza ironica, la banalizzazione della morte, i monologhi assurdi, l'erotismo dissacrato, i riferimenti eclatanti alla cultura - spazzatura, a quegli oggetti, quei segni che cosi bene erano già serviti agli artisti della pop-art, da Lichtenstein a Rauschenberg, o Warhol. Quasi che il suo scapestrato autore si fosse accorto della loro svilizzazione: del fatto che in troppi se ne fossero ormai appropriati, per destinarli a sciocchi videogiochi e irritanti spot pubblicitari. JACKIE BROWN non è più un film convulso, contorto, sensazionalistico; è un'opera certo divertita, ma sorprendentemente lineare, serena e contemplativa, che si affida al trascorrere del tempo, a degli splendidi attori in parte dimenticati, all'osservazione dell'ambiente, ad una pittura attenta, tenera dei personaggi e delle loro psicologie. Ed infine, alla descrizione di una delle relazioni amorose più trattenute, giuste e sensibili che il cinema americano ci abbia offerto da anni.

Ma il bello dell'arte di Tarantino è di vivere delle proprie contraddizioni; e non solo per il carattere insolito dei personaggi, l'originalità delle situazioni, l'accentuazione dei dettagli stranianti delle inquadrature, il paradosso dei suoi sviluppi e dei suoi significati. Se JACKIE BROWN afferma la sua maturità artistica, è proprio perché contraddice certi valori spettacolari, ma forse effimeri dei due film precedenti; e, nel contempo, conferma egualmente la forza di un discorso che vive di una sua continuità.

Come sempre, in effetti, il cinema di Tarantino si afferma come quello del "dopo": del ricupero di valori, dell'omaggio ad un'epoca ed ai suoi personaggi: di un omaggio che non è mai però decorazione, glorificazione, ricostruzione mitica. Ma rivisitazione critica (come non definirla postmoderna?) di quei valori, attraverso una visione moderna, aggiornata, contemporanea.

Ecco allora Tarantino adattare per la prima volta il soggetto di un altro, il romanzo popolare di uno scrittore che lo ha sedotto da quando era ragazzino, Elmore Leonard: e rendere omaggio ad una cultura che è particolarmente congeniale a colui che è stato definito il più nero dei cineasti bianchi: la "blaxploitation". Tentativo di creare una cultura nera in un momento nel quale la comunità afro-americana si afferma sul piano economico e politico; e corrente cinematografica di serie B degli anni 70, violenta, marginale, subito condannata dai vertici politici dei movimenti di emancipazione poiché considerata troppo estrema. Non abbastanza rispettabile, non sufficientemente... bianca. Anche se del tutto coerente con certe esigenze delle minoranze di colore; oltre che con l'autenticità di un cinema nero, che l'America non ha mai effettivamente posseduto.

Se Tarantino mette in scena questo falso-thriller (la storia di una hostess nera di 44 anni, costretta ad arrotondare il proprio stipendio miserabile importando i proventi di un balordo trafficante d'armi; e di un 54enne con parrucchino di professione fornitore di cauzioni, che l'aiuterà ad ingabolare il criminale con il suo mezzo milione di dollari) è anche perché i cattivi e sbullonati di JACKIE BROWN sono come quelli dei suoi film precedenti: degli archetipi, confrontati con le contraddizioni (e quindi con la derisione) imposte dalla realtà quotidiana. Dei pseudo-duri, degli imbranati, dei litigiosi: granelli di sabbia buffi ma desolanti, destinati a far deragliare i meccanismi più astuti. Specimen dalla fronte alta due pollici (esilaranti, ma pure significativi) di quella imbecillità enorme, dilagante che per Tarantino rappresenta il marchio fondamentale della criminalità.

In una California che conosce alla perfezione per esservi cresciuto, fatta di scorci melanconici, alloggi squallidi, supermercati tragicamente pimpanti, fastfood di plastica anonima, il regista mette quindi in scena due film. Un suspense non proprio impeccabile (poiché dei due film gli interessa il secondo...), che si trascina in un virtuosismo un po' scontato: ma che gli permette una galleria di ritratti assolutamente straordinari. Da Robert De Niro, cosi stupefacente da non farci ormai più caso, irresistibile nel ruolo puramente mimico ("cerca di avere la corporeità di un mucchio di biancheria sporca", pare gli abbia suggerito il regista) di un ex detenuto decerebrato; a Bridget Fonda, pupa del gangster eternamente fatta ed abbronzata; a Michael Keaton, sbirro eccitato ed impotente della brigata anti-stup; o a Samuel L. Jackson, che ripropone la più nota logorrea che lo rese celebre in PULP FICTION, è tutta una serie deliziosa di personaggi-tipo della mitologia di un genere. Ma che il virtuosismo del dialoghista Tarantino, e la sua abilità nel cogliere l'aspetto più attuale della tipologia del personaggio rende inedito ed eccitante.

Il secondo, dei film in JACKIE BROWN, è quello che sorprende. Non solo perché con Pam Grier e Robert Forster l'autore resuscita una divinità nera dimenticata degli anni settanta; e un attore di misura e sensibilità rara, che Hollywood ha sottovalutato per anni dopo i suoi esordi con John Huston. Ma perché, chinandosi sulla relazione che nasce tra i due, quasi in margine del giallo che dovrebbe importare, Tarantino dimostra come un giovane artisticamente dissoluto ed iconoclasta, possa chinarsi sui valori più intimi e preziosi: quelli dell'usura imposta dal tempo, del perdurare della femminilità, della salvaguardia della dignità.

Dalle prime immagini del film, quando l'incedere della maestosa Pam Grier è ripresa in tutta la sua toccante sensualità mentre avanza sul marciapiede mobile dell'aeroporto, allo splendido finale, miracolosamente giocato a controsenso rispetto alla tradizione trionfalistica di Hollywood, con lui che vorrebbe trattenerla, lei che vorrebbe essere trattenuta, ma ambedue protetti in un pudore amoroso che centuplica i significati della relazione, Tarantino dimostra di aver superato lo stadio dello sbalorditivo bambino- prodigio.

Di sapere non tanto, come diceva Cocteau, filmare la morte al lavoro: quanto la fatica della dignità di viverla.


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