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J. EDGAR Film con lo stesso punteggioFilm con lo stesso punteggioFilm con lo stesso punteggioFilm con lo stesso punteggio
  Stampa questa scheda Data della recensione: 15 gennaio 2012
 
di Clint Eastwood, con Leonardo DiCaprio, Naomi Wattts, Judi Dench, Armie Hammer (Stati Uniti, 2011)
 
J. EDGAR è tutto rinchiuso negli spazi semioscuri occupati da un destino malvagio del quale ci sembra di sapere già tutto. Sono quelli cupi e claustrofobici, dettati dall'abituale, quasi impalpabile maestria registica di Clint Eastwood, ai quali si è costretto colui che per quarant'anni è stato il padrone della cittadella FBI: inaccessibile persino agli 8 (!) Presidenti succedutosi nel frattempo, in una dimensione ormai definita della banalità del male. Ma nel contempo, la seconda biografia (dopo BIRD) dell'81nne ultimo erede della grande tradizione classica hollywoodiana, è come permeata di una certa pietas, a tratti quasi commossa per il mostro. Impreziosita nel suo eloquio incessante dalla versione originale (che finalmente le nostre sale offrono puntualmente, grazie alla distribuzione digitale) questa introspezione indubbiamente particolare in uno dei personaggi chiave del Novecento americano è un film importante, logico e necessario. Anche se non necessariamente il più eclatante, il più indiscutibile del suo autore.

Eastwood dev'essere partito dall'idea che su chi sia stato J. Edgar Hoover già ce n'eravamo fatti tutti un idea; meno, forse, di quale America si nascondesse dietro di lui. Malgrado ciò, il ritrattista accorato del Mandela di INVICTUS ha scavato piuttosto nel primo di quei buchi neri: nell'uomo, nell'intimo della sua psiche allucinata, nella paranoia, la megalomania, la sete di potere, il razzismo, la manipolazione, l'incertezza sessuale. Meno è sembrato interessato nel secondo, quel ventre altrettanto molle che ha permesso che tutto succedesse (“ ma parlare del maccartismo, del suo carattere persecutorio, avrebbe dato un altro film”); prolungando invece per tutta la durata del film gli interrogativi pruriginosi sugli incerti omosessuali della celebre relazione con il fido assistente Clyde Tolson, con il quale Hoover condivise ogni pranzo e cena dalla sua esistenza. In questo senso J. Edgar è relativamente un film politico; piuttosto una riflessione, indignata ma anche comprensiva, sulla deriva anche sessuale di un individuo sottomesso alla madre (ottima, al solito, Judie Dench), intelligente ma condizionato dall'ambiguità e dalla menzogna. Dalla condanna alla solitudine e all'impossibilità di amare.

La sceneggiatura di Dustin Lance Blank (MILK, di van Sant) costruisce questa ambivalenza ricalcandola sul filo delle memorie (tra il 1924 e il 1972 della scalata al mito dell'FBI, oltre che a quello fasullo del giustiziere con la pistola che finirà sui comics e gli imballaggi di cereali) dettate da Hoover stesso ai biografi al suo servizio. Cosi che, in perfetta contraddizione con il principio che vuole lo spettatore affidarsi ciecamente alle verità dell'immagine, questi ben presto farà la parte di quanto siano debitrici della più flagrante mitomania; ma, nel contempo, non sfuggirà ad una a priori impossibile identificazione con la melanconica fragilità che è anche del mostro.

Eastwood regista costruisce allora puntualmente il proprio montaggio o l'ambientazione su quell'incessante ( e non sempre creativo) andirivieni temporale; con una determinazione che giunge a fargli iniziare una sequenza negli anni Venti per concluderla in quelli Settanta, o viceversa. Un procedimento quasi pedante, che dell'indagine psicologica penalizza l'identificazione e l'emozione. Anche se annegato nella pudica, scolorita amarezza delle immagini di sempre; se accentuato dal pesante trucco d'invecchiamento inflitto agli attori, che permette al Leonardo DiCaprio dal viso costantemente celato per metà nel buio dallo sguardo di Eastwood, di filtrare mirabilmente ferocia e debolezza, doppiezza e fragilità.


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