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I DISPERATI DI SANDOR
(SZEGENNYLEGENYEK)
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  Stampa questa scheda Data della recensione: 9 gennaio 1972
 
di Miklos Jancso, con János Görbe,Tibor Molná, András Kozák, Zoltán Latinovits, Gábor Agárdy (Ungheria, 1965)
 
La sera stessa della prima del film di Damiani L'ISTRUTTORIA E' CHIUSA a Lugano, la televisione ticinese proiettava (alle 23 e 15…) un film prezioso per il nostro pubblico, perché raro: uno dei capolavori dell'ungherese Jancso. Vedere accomunati i due film è interessante, anche se forse un poco ingeneroso per il film italiano. Perché, anche se questo parla degli abusi del sistema carcerario, e quello della repressione dei partigiani ungheresi da parte degli austriaci alla fine del secolo scorso, il tema è il medesimo. La violenza, la cancellazione della dignità, dell'istinto di sopravvivenza dell'uomo; ma, soprattutto la creazione di una gerarchia, di una casta della prepotenza e dello sfruttamento di ogni situazione. Nella prigione dell'Italia meridionale, come nella steppa sconfinata (ma per questo ancora più coercitiva) dell'Ungheria di Jancso.

L'emozione del film di Damiani nasce da attributi ereditati dal teatro: la recitazione, il dialogo, la scenografia, la musica, la trama. Dall'illustrazione di una idea letteraria, nata sulla carta, ed in seguito raffigurata con la macchina da presa, più o meno bene, non sta qui il punto. In Jancso, la violenza, l'analisi di un concetto astratto, nascosto nell'intimo dell'individuo, avviene grazie ad una visione che porta anch'essa all'astrazione: nel suo film non si parla, o quasi; non avviene quasi nulla, la scenografia è elementare, l'accentuazione musicale è assente.

Eppure il grido di rivolta di I DISPERATI DI SANDOR (SZEGENNYLEGENYEK) ,così tenue nei confronti di quello clamoroso di Damiani, s'impone dopo poche battute con una violenza insopportabile, con una vibrazione profondissima e lacerante. Il discorso da particolare, locale, si fa più ampio, universale, eterno: si eleva dai limiti dell'aneddoto. Tutto questo perché quello di Jancso è un discorso autentico: ogni inquadratura é il risultato di uno sforzo analitico di tuttigli elementi figurativi, di una scomposizione geniale di questi elementi che portano il discorso su una dimensione immateriale così come lo esige il tema trattato.

Una pianura che imprigiona, una costruzione come oggetto esemplare di oppressione, delle figure circoscritte in queste dimensioni, una composizione linguistica che si organizza progressivamente, alla ricerca di un quadro perfetto di equilibri e di significati. Con dei segni, dei movimenti, delle contrapposizioni di luci e di ombre il grido di Jancso, nasce così puro, logico, fino a diventare una sintesi perfetta delle intenzioni ideologiche dell'autore.


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