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HARRY A PEZZI
(DECONSTRUCTING HARRY)
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  Stampa questa scheda Data della recensione: 27 gennaio 1998
 
di Woody Allen, con W.A., Judy Davis, Billy Crystal, Elisabeth Shue, Amy Irving, Demi Moore (Stati Uniti, 1997)
 
"Sto facendo un'overdose di me stesso", parola di Harry, che è poi Woody.

E Dio sa se è vero: perché poche volte al cinema, un artista ed il proprio personaggio si sono confusi a quel modo. E anche se l'ineffabile Woody Allen va raccontando in giro di aver dovuto interpretare il ruolo solo perché tutti gli interpellati, da Robert de Niro ad Elliot Gould, da Dustin Hoffman a Dennis Hopper, erano tutti occupati... .

Storia di uno scrittore che non trova uno straccio d'amico (per non parlare dei membri della famiglia) che lo accompagni all'Università dove deve essere celebrato; dopo che da giovane l'avevano sbattuto fuori, per aver insidiato la moglie del preside. Oppure: storia di un cineasta che mette in scena uno scrittore, che a sua volta descrive se stesso in relazioni e situazioni che non si è mai potuto permettere che di sognare. O, meglio: storia di uno scrittore di racconti erotici, sempre più incerto fra realtà e finzione, che si ritrova aggredito dai propri personaggi. Giratela come volete, fate come dice il titolo in inglese: scomponete l'Harry, che si è fatto i soldi raccontando turpitudini sulle sue ex. Seguite il modo di fare del regista, in quelle prime, sorprendenti immagini del film che accompagnano i titoli di testa: da un taxi giallo scende furiosa Judy Davis, apre la portiera, mette piede sul marciapiede, ma il film s'inceppa; riesce dal medesimo taxi, si precipita verso l'appartamento, e la pellicola sussulta e ricomincia; si riapre la porta del taxi, ridiscende lei furiosa, giunge al portone e scampanella, ma la pellicola s'interrompe. Diciotto volte: HARRY A PEZZI, l'avrete compreso, è un film dislessico. Slegato, accumulativo, aggregativo. Ma mai confuso: poiché di una libertà totale. Narcisistico, come più non si può. Ma quando a dirigerlo è l'artista più egocentrico, più preoccupato di se stesso del cinema contemporaneo, finisce che proprio per queste sue caratteristiche il film risulti finisca per essere un "grande" Allen. Come sono stati grandi fra i suoi 28 film, a partire da quando ha imparato a girare, e cioè da ANNIE HALL, MANHATTAN, ZELIG, LA ROSA DEL CAIRO, HANNAH E LE SUE SORELLE, CRIMINI E MISFATTI, MARITI E MOGLI.

HARRY A PEZZI non è un Allen nuovo. Anzi, riprende i temi di sempre, la coppia, l'ebraismo, l'erotismo, la nevrosi, la psichiatria. Non è nemmeno uno dei più volutamente spassosi, anche se ci offre momenti esilaranti. Al contrario: per la prima volta nella sua carriera, il comico sembra intriso di una sorta di rabbia, di esasperata indignazione, di un piacere del turpiloquio, di un sarcasmo amaro che non risparmia nessuno, men che meno sé stesso: "Sono il peggior uomo al mondo. Insomma, diciamo il quarto: dopo Hitler, Goering e Goebbels". Un pessimismo esistenziale: che gli fa dire che la sola attività che conti (con tutti i problemi che ciò comporta) sia quella sessuale ("Non è certo che Dio esista, ma di certo esistono le donne"); relativizzare, a modo suo, l'Olocausto ("Non solo so che ne abbiamo perso sei milioni. Ma la cosa tragica è che i record sono fatti per essere battuti."): oltre che tentare di convincere sua moglie che nemmeno il sesso sia poi cosi allegro: "Perché, credi che farsi fare un pompino da una ventenne dalle tette enormi sia poi cosi piacevole?"

Ma se il film è una specie di compendio di tutte le manie, i trasformismi cari al creatore di ZELIG, un inarrestabile catalogo delle sue leggendarie preoccupazioni, un pantagruelico, complicato intreccio ai confini fra la realtà dall'autoanalisi e l'immaginario delle proprie fantasmagorie, è proprio a questa sua ingorda complessità che deve la propria energia. Per quella voglia di mettersi a nudo, di confondere in un spropositato, liberissimo, ma infine lucido caleidoscopio di immagini realtà e fantasmi, ragione e poesia, vizi privati e pubbliche virtù.

Solo Woody Allen poteva permettersi un finale felliniano, con i personaggi creati dal protagonista in cerchio ad applaudirlo; o un itinerario nella coscienza della maturità, direttamente ispirato ad un film mitico come IL POSTO DELLE FRAGOLE dell'altro suo ben noto idolo, Ingmar Bergman. Ma non a caso: non solo perché il dono sublime della comicità permetta ogni licenza. Piuttosto, perché con gli anni, dopo essere stato tacciato a lungo (proprio come Chaplin...) di essere un grande comico incapace di mettersi in scena, Allen è diventato un grande regista; per alcuni, il maggiore fra gli americani viventi. L'inventiva, la libertà quasi incosciente della scrittura cinematografica, la sensibilità nella direzione d'attori, l'originalità di certe intuizioni formali (i personaggi in crisi che vanno "fuori fuoco") si organizzano secondo delle regole ben precise, che sole permettono l'apparente complicazione della pellicola. Le sequenze che concernono la vita di Harry sono girate e montate, ad esempio, in modo disorganizzato, per sottolineare lo stato confusionale del protagonista; mentre quelle di finzione, immaginate dallo scrittore, sono organizzate in maniera classica. Ottanta e passa (...) personaggi: con i loro doppi, proiezioni nella finzione, nel tempo e nello spazio: a comporre una diabolica, megalomaniaca abboffata che è difficile non definire di genio.

Dopo un pseudo-documentario, un melodramma greco ed una commedia musicale, Woody Allen si permette questo insensato psicodramma: e chi, nell'universo letargico e calcolato delle superproduzioni americane dell'ultimo decennio, può vantare un decimo del suo fantastico coraggio?


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