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GARAGE DEMY
(JACQUOT DE NANTES)
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  Stampa questa scheda Data della recensione: 14 maggio 1991
 
di Agnès Varda, con Jacques Demy, Brigitte de Monnier, Philippe Maron (Francia, 1991)
Genesi di una passione: un futuro grande cineasta, Jacques Demy, dall'infanzia all'adolescenza.

Una cronaca ricalcata sui ricordi stessi dell'indimenticabile autore di LES PARAPLUIES DE CHERBOURG: ma un'iniziazione a quella passione, come sa trasformarla l'autrice di SANS TOI NI LOI. In un teatrino minimalista i primi anni, dall'infanzia all'apprendistato, del marito: i burattini in piazza, coi bambini e l'autore del futuro LOLA in prima fila, il bricolage nel garage del padre e gli scambi con i compagni (un cuscinetto a sfera contro una minuscola lanterna magica), i primi spettacolini in famiglia, figurine ritagliate fra una domenica a fare il bagno sulla Loira e le vacanze in campagna per sfuggire ai bombardamenti della Luftwaffe. Fino alla prima cinepresa, i pezzetti della striscia di celluloide recuperati fra l'immondizia, le animazioni (ricopiate dai primissimi cimeli in 9.5 mm. conservati dal regista) ottenute disegnando fotogramma per fotogramma: la vocazione, insomma, in un film che in un primo tempo doveva proprio chiamarsi EVOCAZIONE DI UNA VOCAZIONE.

Si conoscono i limiti celebrativi di questo genere di commosse operazioni. Se JACQUOT è innanzitutto un film è perché girato da una (notevole) cineasta, sostenuta fino ad un certo punto dal soggetto stesso; poi, più che dal ricordo, dalla presenza di Jacques Demy che sembra lasciarci definitivamente solo all'ultimo fotogramma, quello con la parola Fine. Non solo, non tanto un racconto. Ma una dichiarazione d'amore, uno stato di grazia: che sa farsi di struggente tenerezza, e non solo poiché noi sappiamo accompagnarsi ad una morte annunciata. Mescolando le voci dell'autrice a quelle del soggetto, giocando fra colore e bianco e nero, il film scivola deliziosamente dal documento alla finzione: quasi rifiutasse l'immobile passeismo della biografia per tentare di prolungare indefinitamente la vita. O, perlomeno, quei sogni che Jacques Demy aveva tentato di racchiudere in un viaggio poetico che ha pochi confronti nel cinema del dopoguerra.

Agnès Varda ha filmato fino all'ultimo (ma senza quella specie di compiacimento necrofilico del Wim Wenders di NICK'S MOVIE) il corpo del marito: con delle riprese in macro vicinissime, che iniziano dai pori della pelle per scivolare sui capelli, fino agli occhi immensi e già lontani, o alle dita ingrossate attorno all'anello matrimoniale. Nel loro intimismo minuzioso, microscopico e macroscopico al tempo stesso, sono gli istanti folgoranti di un film più affettuoso che doloroso, più burlesco che drammatico: un'immensa panoramica sul paesaggio fisico che chiamiamo vita.


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