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GANGS OF NEW YORK
(GANGS OF NEW YORK)
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  Stampa questa scheda Data della recensione: 5 febbraio 2003
 
di Martin Scorsese, con Danel Day-Lewis, Leonardo DiCaprio, Cameron Diaz, Jim Broadbent, John C.Reilly, Liam Neeson (Stati Uniti, 2002)
 
GANGS OF NEW YORK non racconta, come potrebbe far pensare il suo titolo, la genesi del crimine nella città che più ha avuto a cuore Martin Scorsese. Quella che ha mirabilmente incorniciato il tassista di TAXI DRIVER, il pugile di TORO SCATENATO, l'informatico di AFTER HOURS, gli apprendisti delinquenti di GOODFELLAS e, naturalmente, il sassofonista di NEW YORK, NEW YORK. Personaggi più mediocri grandi, destinati talvolta a trascendere la propria condizione nella loro aspirazione al martirio; o tal altra, un po' per il fato, molto per un desiderio inconscio di autopunizione, votati alla distruzione, a somiglianza del sistema che avevano creato.

GANGS OF NEW YORK allarga ulteriormente la visione mistico-realistica di Scorsese, ne amplifica a dismisura l'ambizione. Non fosse che per il fatto di non avere ormai più come protagonista uno, o più individui: ma una città, una nazione, un'idea (quella che la democrazia possa nascere, e comunque finire a patti con la violenza) che condiziona tutta la nostra epoca. Il film è allora il frutto glorioso e pure laborioso di un sogno del cineasta che risale agli inizi della sua carriera; oltre che dei ripetuti scontri con un produttore per ridurre il film da 220 a 160 minuti… Della lettura di un romanzo del 1928 di Herbert Asbury, che illustra una serie di aneddoti più o meno autentici sulla violenza delle lotte fra bande rivali nei bassofondi della futura metropoli nella metà dell'Ottocento, la corruzione municipale e la sua associazione con quella che sarà la mafia, gli scontri fra le etnie immigrate dei cattolici irlandesi e gli anglosassoni protestanti, il linciaggio degli schiavi neri appena emancipati da Lincoln, le prime tangenti delle fumerie d'oppio cinesi, i soprusi dello Stato nell'arruolamento dei poveracci inviati al macello della guerra di Secessione. Fino alle cannonate istituzionalizzate dalle corazzate della Navy nel porto, su tutta quella massa di poveracci che si stava trucidando all'arma bianca da generazioni.

GANGS OF NEW YORK è il primo film storico di un maestro del cinema americano del dopoguerra, che non aveva ancora avuto il suo APOCALYPSE NOW, come Coppola, I CANCELLI DEL CIELO, come Cimino o il SOLDATO RYAN come Spielberg. Un "eastern", che del western assume l'organizzazione spaziale, la coralità quasi operistica dei movimenti di massa, il tema edipico del figlio che ritorna per assumere le ferite inferte al padre, l'ambiguità del rapporto vendicativo fra vittima e carnefice. Dall'inizio con la violenza più barbara che sgorga dalle catacombe esaltata dalla fotografia di Michael Ballhaus e dalle scenografie di Dante Ferretti, all'apocalisse finale nel quale il duello effimero fra i due contendenti si perde nel caos di una cataclisma socio-politico che ne ridimensiona fino ad immiserirla l'importanza, il film assomiglia sempre più a NASCITA DI UNA NAZIONE di Griffith e sempre meno a MEAN STREETS; con qualche divagazione dalle parti de L'ULTIMA TENTAZIONE DI CRISTO, alle quali le molteplici ferite inflittesi dai martiri scorsesiani impongono di pensare. Quel capolavoro rappresentava il passaggio dalla piccola alla grande martirologia nella carriera del regista: qui, la transizione dalla storia dei miseri a quella dei potenti. Dall'infinitamente piccolo all'infinitamente grande; dalla necessità della povertà per ottenere la ricchezza. Pregi, e limiti di GANG OF NEW YORK sono contenuti in questa dialettica.

Pregi di un approccio storico che il cinema americano non aveva mai osato, affrontato con cultura e documentazione impeccabile (i dagherrotipi di fine ottocento di Jacob A. Riis); di un mestiere cinematografico sontuoso sul quale pare inutile ritornare. E limiti: che sono quelli di un intimismo che Scorsese fatica a ritrovare, forse più in sede di una sceneggiatura squilibrata che di uno stile registico preso dalla prepotenza della propria impostazione cosmica. Complice l'interpretazione impressionante, ma pure ai confini del caricaturale di Daniel Day-Lewis nei panni del cattivo dei poveri, e quella per contrasto pericolosamente scolorita di Leonardo DiCaprio, del prolungato tiramolla famigliare e sentimentale (lei è Cameron Diaz) fra i due finisce per interessarci non più di tanto. Si riflette, e non sempre partecipa; ammira, e non proprio commuove. All'interno del cinema di Martin Scorsese è tanto, e troppo poco.


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