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FAI BEI SOGNI Film con lo stesso punteggioFilm con lo stesso punteggioFilm con lo stesso punteggioFilm con lo stesso punteggio
  Stampa questa scheda Data della recensione: 4 dicembre 2016
 
di Marco Bellocchio, con Valerio Mastandrea, Bérénice Bejo, Fabrizio Gifuni, Guido Caprino, Emmanuelle Devos, Pier Giorgio Bellocchio, Piera Degli Esposti, Roberto Herlitzka (Italia, 2016)
 

Non a caso è dal 1965 di I pugni in tasca che la poetica di Marco Bellocchio continua ad illuminare il panorama del cinema italiano. E una volta ancora, già dall’incipit di Fai bei sogni, risalta la prima delle sue qualità. La semplicità. Il rigore di uno sguardo che ci guida subito all’essenziale; la scelta del dettaglio che permette allo spettatore di entrare immediatamente in sintonia con la situazione, i personaggi, i sentimenti, anche i più intimi.

Appropriandosi dell’autobiografia di qualcun altro (il best-seller del giornalista della Stampa Massimo Gramellini), facendola sua ma come in parte diffidandone, Bellocchio sembra averla tradotta in immagini che sembrano in bilico. Fra le tentazioni del cuore di una vicenda dall’evidenza emotiva quasi ovvia; e l’esigenza razionale di distaccarsene, quando l’emozione stava straripando. Spazio allora al potere dissacrante dell’ironia, o del ricorso al fantastico: in quell’universo di ombre profonde dal quale il regista (e la presenza fedele della fotografia di Daniele Ciprì, il montaggio di Francesca Calvelli, le musiche di Carlo Crivelli) sa sempre estirpare il faticoso ritorno alla realtà dei personaggi.

A questa duplicità dei sentimenti Fai bei sogni non può che aderire con una duplicità espressiva. Da un lato, l’elaborazione crudele di un lutto, con la conseguente fatica nell'assumere le convenzioni sociali: la ferita mai rimarginata del protagonista ( Valerio Mastrandrea) in seguito alla perdita della madre vissuta a 9 anni. Ma dall'altro, il suo tardivo, quasi improbabile successo professionale: che comporterà un’evoluzione nei toni del film, dall’intimismo anche angoscioso degli spazi privati alle immagini pubbliche e storiche di Sarajevo, Tangentopoli, Superga o i Giochi olimpici.

E' un rovesciamento paradossale, che soltanto la spregiudicata giovinezza espressiva del cineasta rende possibile: fondendo le atmosfere crepuscolari che rimandano ad Ingmar Bergman, gli inserimenti inquietanti dello sceneggiato degli anni 60 Belfagor agli stralci euforici di Canzonissima. Una decostruzione alla quale il pudore espressivo del cineasta toglie ogni macchinosità; anche nell'ambito di una progressione temporale che da magistralmente intuita si fa sul finire un po’ tanto spiegata.


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