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FAHRENHEIT 9/11
(FAHRENHEIT 9/11)
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  Stampa questa scheda Data della recensione: 13 settembre 2004
 
di Michael Moore, documentario (Stati Uniti, 2004)
 
Un po' pioggia sul bagnato. Utile e dilettevole, sapiente e sornione, a quattro mesi dalla clamorosa Palma d'Oro di Cannes un avvenimento ormai mediatizzato fino all'osso come il documentario di Michael Moore appare sempre più fabbricato per le platee americane che per le nostre. Che sulla faccenda dovrebbero ormai saperla lunga, dall'elezione ai margini della truffa di Bush, alle collusioni economiche e strategiche del suo clan con quello di Bin Laden, prima del crollo delle Torri, alla facilitata evacuazione successiva (e perché no) all'attuale messa in sordina degli stessi; dalla strumentalizzazione del terrore in patria ai fini di una invasione e di una ricostruzione dell'Irak dal petrolio facile. Montaggio forsennato ad immagine della serie di quei drammi precipitosi; velenoso e sarcastico, come lo specchio fedele della loro ambiguità. Talvolta originale e divertente, a tratti furbo e risaputo, sapiente o approssimativo nella manipolazione delle immagini. Il risultato? Ovviamente positivo, considerati gli scopi politici ed il successo clamoroso del film. I mezzi utilizzati per raggiungere quei fini? Più discontinui, a tratti discutibili: da far sperare di non rendere controproducente l'operazione dell'ormai tradizionale (si pensi al Charlton Heston di BOWLING FOR COLUMBINE) procedimento dell'autore: la presa per i fondelli di un in questo senso impareggiabile protagonista, stolido o diabolico in una proporzione da stabilire, quale George W. Bush.

La simpatia nei confronti di Michael Moore va innanzitutto al suo coraggio di esporsi; nell'imperante, globalizzante relativismo dei se e dei ma. E di farlo di persona: mettendosi in scena, con la propria placida e corrosiva bonomia di americano qualunque, nelle sequenze più efficaci e qui più rare che in passato. Mentre ritorna commosso nelle dimensioni disastrate della nativa Flint nel Michigan dagli strali nei confronti dei licenziamenti della General Motors di ROGER AND ME. Quando incalza i senatori chiedendo se hanno l'intenzione di spedire i propri figli al fronte; o si accosta fra gli agenti degli FBI all'ambasciata più protetta degli Stati Uniti, quella dell'Arabia Saudita; o riesce con incredibile furbizia a filmare i reclutatori dell'esercito a caccia di disoccupati, preferibilmente neri, all'entrata dei supermercati.

L'ammirazione al cineasta nasce dai momenti di intuizione: lo schermo nero che accompagna l'audio terrificante durante il crollo, i tempi che si dilatano quando Bush si immerge nella lettura del libro per l'infanzia mentre gli annunciano la progressione dell'attentato, le maschere metaforiche e gli ammiccamenti al trucco degli uomini al potere prima delle riprese televisive, i testimoni che sfilano a denunciare la truffa elettorale, sollecitando inutilmente l'intervento dei senatori nel silenzio imbarazzato dell'emiciclo. E, ancora, il montaggio impeccabile di documenti autentici, la costruzione drammatica su di una madre militarista di Flint: “prima” che la poveretta sia tragicamente costretta a ricredersi, alla notizia della scomparsa del figlio in Irak.

In FAHRENHEIT 9/11 non manca infine la manipolazione, implicita in ogni accostamento dell'immagine cinematografica di questo genere. Più superficiale, tanto strumentale da apparire deteriore: come quelle dei bambini felici sulla giostra e gli adulti nelle pasticcerie di Baghdad, prima dell'invasione.


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