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CACCIA ALLE FARFALLE
(LA CHASSE AUX PAPILLONS)
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  Stampa questa scheda Data della recensione: 5 novembre 1992
 
di Otar Iosseliani, con Narda Blanchet, Thamar Tarasajvilj, Alexandr Cerkasov, Alexandra
Liebermann (Francia, 1992)
Come può una dolce follia, un'arguta eccentricità, una contemplazione grottesca, sensuale e melanconica trasformarsi in una riflessione reale, quasi politica del presente? La risposta ce la poteva dare solo questo straordinario regista georgiano emigrato a Parigi: in un film dove non si vede nessuna caccia alla farfalle. Per il semplice fatto che dipinge un mondo dal quale questo passatempo più o meno serioso è stato evacuato per sempre.

La storia - irraccontabile, in un film nel quale le delizia sta nel "come" si dice, ben più che nel "cosa" - è quella di due vecchie cugine russe, finite in un piccolo villaggio della Francia profonda, nel quale hanno ereditato una tenuta, un castello di quelli ormai impossibili da mantenere. Una non esce mai, poiché malata, e coi propri sogni; l'altra si arrangia svendendo i resti ormai fatiscenti, corre in bicicletta fino al villaggio per acquistare le baguettes, caccia con l'arco i pesci dello stagno e trova ancora il tempo per una partita a bocce all'imbrunire. Circondate, le nostre due adorabili, da una serie di personaggi veri ed assurdi: il curato che si sveglia a Beaujolais, un marajah che riconta eternamente i propri diamanti, alcuni esuli zaristi, degli svagati Hare Krishna arancioni, e una galleria di ritratti di una provincia in via di scomparsa. Qual'è la minaccia? Il progresso, naturalmente... Ma pure il notaio avido, l' antiquario profittatore, ed i soliti parenti che aspettano di precipitarsi da Parigi per spartirsi l'eredità. Ed i giapponesi: che - ed è ufficiale - investono nella Francia provinciale, acquistano le vestigia del passato per trasformarle in oggetti di rappresentanza, spesso dimenticati in seguito dopo essere state banalizzati.

"Il possesso, la smania di possesso non ci lega certamente alla vita. Semmai, è la frequentazione del prossimo, la conoscenza, lo scambio, la relazione: tutte cose che il nostro modo di vivere, quella che chiamiamo l'era della comunicazione tende a soffocare". Ma i film dell'autore di C'ERA UNA VOLTA UN MERLO CANTERINO e di PASTORALE sono tutto fuorché delle tirate moraliste, o dei pamphlet programmati: piuttosto, dei frammenti di vita veri ed assurdi, graffianti e poetici (un po' come nel cinema di Tati, o in quello di Bunuel). Che per la loro verità e giustezza finiscono per farci riflettere, oltre che divertire e commuovere; mutandosi così anche in istrumenti di denuncia, sociale o politica.

E di grazia sovrana. Che nasce proprio da una apparente assenza di costruzione, di struttura, di premeditazione: sono i personaggi, ed anche gli oggetti, che fanno crescere il film, lo spingono, lo fanno avanzare, maturare, come in una coreografia, in una costruzione musicale che infili, una dopo l'altra, delle frasi che la facciano ribaltare, sviluppare, amplificare. Una cronaca minimalista, una piccola musica fatta di deliziosi personaggi minori che, grazie alla loro giustezza, fanno lievitare il tutto. Una fuga, nella quale i motivi si seguono, si sovrappongono, si dimenticano, si ritrovano ordinati da una logica armonica, sul filo di una casualità spesso imprevedibile, andando a formare quella trama di osservazioni che compone il quotidiano.


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