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  Stampa questa scheda Data della recensione: 4 ottobre 2009
 
di Giuseppe Tornatore, con Francesco Scianna, Margareth Madé, Nicole Grimaudo , Angela Molina, Lina Sastri (Italia, 2009)
 
Tornatore è un regista dal talento, diciamo cosi, espansivo. E BAARIA è un film generoso, che merita pure rispetto per l'impegno di girare ancora alla grande, in un'epoca di affrettate soluzioni digitali. Ma sorge subito una domanda: che ci sta a fare, sopratutto in un film nel quale si sono investiti più di trenta milioni di euro, uno sceneggiatore e, prima ancora, un produttore? Perché il film andrebbe sforbiciato di (almeno) una ventina di minuti, le situazioni si moltiplicano e all'infinito si ripetono, le sequenze superflue balzano all'occhio. Cosi, dopo una prima parte nella quale la disinvoltura del montaggio esalta l'impeto e maschera la grandiloquenza si cade nella semplificazione, storica e psicologica.

La cronaca corale di Bagheria, cittadina in provincia di Palermo nella quale Tornatore respira a fondo poiché ci è nato, inizia con un bambino che corre incessantemente fino ad innalzarsi in volo; per ricomparire, dopo essere cresciuto negli anni del fascismo, nel traffico caotico della Bagheria contemporanea. C'è tutto il cinema di Tornatore, in quell'idea spettacolare: fondere la storia (e che spaccato di storia…) alla favola, giocare tra la realtà e il fantastico. Tra gli estremi, l'infinitamente piccolo e lo smisuratamente grande, l'eroicamente lento e lo sbrigativamente “moderno”. L'opera e la canzonetta; e magari Fellini ma, soprattutto, Sergio Leone. Solo che quella di Leone era l'arte della copia, della filiazione rispetto a certi archetipi drammaturgici, del Mito come dello stereotipo, della lentezza (o della lunghezza) che si faceva solenne nel suo riecheggiare il distacco tipico del melodramma lirico.

Qui, di lirico, c'è l'invadenza del commento musicale di un Morricone che caricatura ormai sé stesso. E di contemplativo poco, in quell'ingordigia del voler raccontare quasi un secolo di vicende piccole e grandi: un'infinità di personaggi (il cast – poteva anche essere divertente - allinea non fosse che per un attimo Placido e la Bellucci, Gullotta e Salemme, Donatella Finocchiaro, Raoul Bova o Nino Frassica), un mosaico convulso di bozzetti dai quali concludere guerra e mafia, fascismo e comunismo, il ruolo della donna e il maggio 68. A voler raccontare l'Italia a quel modo, meglio allora LA MEGLIO GIOVENTU, uno spaccato del Belpaese definito telefilm, ma che si reggeva in piedi.


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