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LONTANO DAL PARADISO
(FAR FROM HEAVEN)
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  Stampa questa scheda Data della recensione: 18 settembre 2003
 
di Todd Haynes, con Julianne Moore, Dennis Quaid, Dennis Haysbert, Patricia Clarkson, Violla Davis (Stati Uniti, 2002)
 

Ah, l'America degli Anni Cinquanta, le Cadillac e Buick tutto cromo parcheggiate davanti alle aiuole ordinate della provincia di lusso, le ville technicolor senza la piega di una tenda che sgarri dai rosa bonbon e verde pistacchio cari all'universo patinato di House & Gardens. E le loro proprietarie... Eroine della stessa cartapesta in un oceano pastello di golfini, gonne taffetas e plissé, regine della casa inappuntabili, madri di famiglia esemplari, consorti assolutamente devote, dai toast del breakfast con i ragazzini in ritardo per la scuola alla coscia di pollo in frigo per il ritorno a notte inoltrata del marito già rampante. Una bomboniera incantata: ma dal cui dolciume subdolo già stanno affiorando gli effluvi di un'altra America, quella del decennio a seguire, della contestazione; alla violenza, al razzismo, alle diversità di ogni genere.

Film sulla diversità, allora, e sulla sua accettazione (un marito omosessuale, un amico di colore), LONTANO DAL PARADISO è un film sorprendente, da parte di un regista di evidente maestria figurativa (pure pittore, non a caso), ma del quale le opere precedenti (SAFE e VELVET GOLDMINE) lasciavano un sapore di incompiuto, se non proprio di superficialmente elaborato.

Un melodramma socio-sentimentale; quasi un remake, anche nel titolo, di ALL THAT HEAVEN ALLOWS (SECONDO AMORE), uno dei grandi film di Douglas Sirk, il riferimento sovrano in materia (scomparso, tra l'altro, a Lugano nel 1987, nella beata ignoranza che ci contraddistingue). Todd Haynes riprende i gesti espressivi (l'accentuazione sfavillante e barocca dei colori, delle scenografie, dei costumi; la fuga nell'irrealtà suggerita dalle fonti luminose; la recitazione degli attori) e drammaturgici (la concentrazione dell'azione sul nucleo familiare; il distacco ironico che tende a smussare la tensione) del grande maestro adorato da un altro immenso poeta di melodrammi, Rainer Werner Fassbinder.

Ma significherbbe mortificare l'importanza e la bellezza di LONTANO DAL PARADISO volerlo confinare fra gli omaggi ad un genere del passato (oltre tutto discretamente in disuso), ad un virtuosistico d'après; nè, tantomeno, inventargli quelle sovrapposizioni di linguaggio, quelle amplificazioni di tono che ne farebbero un'opera postmoderna. Il film vive di vita propria: si serve di un involucro, di un contenitore lussureggiante e posticcio per disintegrarlo. In questo senso, ma solo in questo, riprende il discorso del grande Sirk. Poichè altrimenti è ormai la determinazione, quasi la rabbia, ad aver preso il posto della benevolenza, dell'ironia richiesta allo spettatore

La disilluioni della splendida, insostituibile Julianne Moore vanno di pari passo con lo sgretolarsi di quel mondo di finte armonie, di tinte dominanti che progressivamente degradano dai pastelli eterei alle tonalità bruno-violacee piû cupe. Come dei colori trionfanti della natura che accompagnano nelle loro mutazioni quelle piû intime della protagonista: dallo strepitoso, aggressivo, quasi irriverente trionfo infuocato dell'Indian Summer del Connecticut esibito allo spettatore della prima parte, alla neve che sfuma le emozioni più soffuse come i rancori più sconci, fino ai primi germogli di primavera che annunciano la rinascita, il compimento dell'altro movimento che accompagna la donna nella propria consolazione, nella presa di coscienza esistenziale e sociale che sente avvenire dentro di sè fin nei momenti di maggior smarrimento.

Da un massimo d artificio, da un eccesso di ridondanza decorativa Todd Haynes riesce ad ottenere un eccesso di verità, un surplus d'introspezione all'interno dei suoi personaggi. Per il miracolo dell'arte, la rappresentazione esaltata di quelle maschere grottesche chiamate convenzioni che nascondono il mondo alla nostra vista riesce a rivelarne alcune delle verità più profonde, fragili e rivelatrici.


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