Dodicimila pagine scritte in sanscrito e mai integralmente tradotte in un'altra lingua, questa bibbia indù - un po' come per noi il Vecchio Testamento ed i poemi omerici - è quella sorgente di miti, di religioni, di leggende che indoviniamo affascinante.
Assieme allo sceneggiatore Jean-Claude Carrière, Peter Brook (che aveva tratto dal MAHABHARATA uno spettacolo teatrale rimasto celebre, presentato per la prima volta nell'85 ed Avignone) ha svolto su quell'enorme materiale un ammirevole lavoro di adattamento, per condensarlo nelle tre ore di proiezione.
Egualmente, non possiamo non essere sedotti dalla sapienti illuminazioni di William Lubtchansky, dalla sontuosa fantasia dei costumi, dall'impegno degli attori che traggono da questa storia di passioni, di grandezze e bassezze divine e terrestri, una sorta di drammaticità shakesperiana espressa in una coreografia alla Kurosawa.
Rimane il fatto che tutto ciò sia terribilmente estraneo alla nostra memoria. E che gli sforzi per ricondurre i significati ai nostri riferimenti culturali, aggiunti al fatto che l'operazione denuncia pur sempre la propria origine teatrale, finiscono col sfociare nel sospetto di un certo didattismo che arrischia di scalfire l'emozione.