"Il ritorno del divino orchestratore di visioni, quelle de I compari, di Nashville o di Tre donne, è ancora rimandato.Non che colui al quale abbiamo guardato a lungo come al grande rinnovatore del cinema americano abbia smarrito il pennello. Quando qualcuno ha rifatto il western, il giallo, la commedia o l'intrigo psicologico come fossero tutti nuovi, quando questo qualcuno li ha rifatti a modello dell'America, perché ci parlassero della sua storia, dei suoi sogni e delle sue delusioni, dei suoi vizi e delle sue virtù, è chiaro che il piacere per il gioco non se lo è perso per strada. Specie se, come in Follia d'amore, le esigenze dell'intrigo lo portano a ricostruire certe costanti dell'arte e dello spettacolo del suo Paese: nessuna meraviglia, quindi se il solito motel ai bordi del solito deserto di cactus, con dentro i soliti tre disperati, sesso frustrato e tequila, l'insegna pastello, i cessi luridi, i letti disfatti, il cimitero di macchine, l'armonica a bocca, tutto questo microcosmo di miserie ed illusioni americane gli riesca a meraviglia.
La cinepresa di Altman, in quella geometria di quattro assi scalcinate, si muove con le grazie di un delfino: guardate come si organizza circolarmente, attorno al piazzale polveroso. Come sfrutta la profondità di campo: o va ad infilarsi fra le pieghe delle sottane di Kim Basinger, indugiando a sottolinearne la pesante sessualità. Come incalza gli attori, indugia sui silenzi, o riesce magistralmente a creare il mistero con la semplice presenza nel buio, di una mandria di vacche.
Ma il cinema di Altman non era soltanto quello di un illustratore: e in Follia d'aMore ritroviamo per un solo istante quel tipo di rivelazioni espressive che avevano cantato la sua gloria. È quando Shepard, il cowboy, insegue a cavallo la Mercedes. Roteando il lasso, e perdendosi sulla lingua d;asfalto che imbrunisce nel deserto. Tutto il donchisciottismo del sogno americano infranto è espresso in quel piano magnifico. Ma è uno solo. Il resto è Shepard, il drammaturgo, lo sceneggiatore, il dialoghista: un affanno continuo a spiegarci le cose di sempre. Lontano dal dramma, che ci lascia del tutto indifferenti, lontano dalla commedia che ci priva di ritmi e di sorprese, lontano da quell'itinerario fisico e anche poetico che gli era riuscito in Paris,Texas e che qui è soltanto risaputo e sottolineato (trascinando, nella noia, anche il personaggio del vecchio Harry Dean Stanton, ricalcato sul quello del film di Wenders).
Sembra di esser tornati ai tempi di Kazan: con la differenza che tutto ciò che da O'Neill a Tennesse Williams abbiamo imparato a conoscere non siamo ormai più disposti a recepire sotto emerite spoglie. Edipo, sesso, ergo alcool."